venerdì 25 giugno 2010

BIOGRAFIA E NOTE CRITICHE



Anna La Rosa, nata a Milazzo, risiede a San Filippo del Mela (Me).
Con un diploma di maestra e uno in dattilografia ha percorso le varie vie dell'arte fin da bambina, dal racconto al romanzo, alla poesia, alla sceneggiatura, per finire alla pittura, qualcosa di impensato un tempo (a sentire lei).
Con alcune poesie ha ottenuto il primo premio e alcune compaiono in prestigiose antologie nazionali.
Ma è con la narrativa che si è sentita più gratificata aggiudicandosi diverse volte il Grifo D'Oro a Perugia, diverse volte il Premio Biancospino, il Premio Duomo, il premio Il Simposio, ecc.
I suoi racconti hanno attraversato tutta l' Italia giungendo a Monaco di Baviera con un quarto posto, e due volte a Lugano con un quarto posto e un premio speciale narrativa.
Diverse poesie e vari racconti viaggiano in Internet e i suoi quadri si trovano esposti in una galleria on line.

Le mie poesie

TI ASCOLTO


Ascolto il vento, adesso.
Un silenzio assordante
riempie i pensieri.
Solo le parole a colmare il vuoto
e le stelle a coprire la notte.
Scorre il tempo e canta una musica nuova,
uccelli in volo in una terra straniera.
Sento ancora la voce
e il frastuono di una vita andata.
Hai ascoltato le mie pene e io le tue,
sei rimasta impigliata nel mio volerti bene
ed è stato bello.
Adesso sei aria in cielo.
Sole acceso sul mare.
Pioggia nuova su terre riarse.
Balsamo fresco su ferite aperte.
Luna nuova che fa capolino in un cielo notturno
tutto da ammirare

23 ottobre 2010.








IL TUO VOLTO

Ho aspettato Te
e piangere era vano.
Mio Signore.
La luce ha preso posto
e l’acqua scorre fiera,
dentro il rigagnolo
di un deserto gramo.
Né morte o siccità
da oggi in poi.
Ho lavorato sodo,
mio Signore.
Adesso vedo, adesso sento.
Tutto il tuo amore.




ANGELI


Siamo fredda tempesta. Anime intrepide.
Siamo stati derisi, violentati, barattati, uccisi.
Siamo ombre su un muro.
Marionette cadute in disgrazia per colpa di dei crudeli.
Onde su uno scoglio.
Figli concepiti e mai nati.
Padri mancati, poesie incompiute.
Cassetti di sogni dimenticati.
Siamo stati spinti oltre i margini dove
il colore è andato in esilio.
I sentimenti ci hanno traditi e le parole condannati.
Siamo cieca speranza
disposti a pagare lo scotto di esserci .
Giorni senza sogni e notti senza luna.
Terre desolate e amori perduti.
Un lascito di un altro tempo che ci condanna a vivere.
Siamo angeli.
Angeli senza ali



MARI DI NIENTE

Ho toccato mari di niente
prima di giungere a te.
Sfiorato l’abisso senza conoscere
il tempo.
Sentendomi cieca in un mondo
di colori destinati agli altri.
Ho taciuto parole e ho cancellato
la memoria.
Adesso ammiro il mare e le sue
tempeste.
Gli aquiloni in volo e le loro saette.
Il crepuscolo giunge ma per me è l’aurora
felice di viverla ancora,
oltrepasso i confini
in un turbine di vento e mi
dico – questo è il mio momento.
Lontano ormai dai mari di niente
finalmente felice di esserci.




NELL’ULTIMA ORA

Ecco, si sente dei lupi lavorar
la foresta, e delle camere a gas
lavorar l’universo.
Ecco, il rapace uccello
si avvicina, ci prenderà,
taglierà i nostri capelli al vento;
caverà i nostri denti d’oro,
ecco si avvicina.
Tutto si oscura,
vedo i bimbi nell’ultima ora,
vedo e non vedrò mai più.
Tutto sembra immoto dentro
una bolla d’aria.
L’avvoltoio si avvicina,
non resterà più traccia dei bimbi.
I loro piedi sono nudi pezzi di carne
sulla neve sporca.
I loro occhi navigano in un mare
di dolore.
Sento nelle vene il sangue gelare
e nell’ultima ora c’è chi non lo
sentirà più.
Ecco, l’avvoltoio si diverte
alle nostre spalle, nessuno
si ribella e il tempo continua.

Anno 1976




TI SENTO


Non parlarmi.
Ti sento giungere a me tra folate di vento settembrino.
Tra onde spezzate da scogli incontaminati e lontani.
Con saette che dividono il cielo in due finchè gli squarci
rivelano il labirinto della mente
dove tu mi vuoi e io ti voglio.
Alzati in volo,
puoi farlo,
una volta,
un’altra
e
una ancora.
Baciami con la forza disperata di sapere
che ogni cosa è effimera,
che sparirà al primo spuntar dell’alba
ma che è proprio questo a dargli forza.
Coprimi di carezze
come un amante perduto e poi ritrovato.
Adesso ti sento.

9 settembre 2003




RICORDI


Ho cavalcato la strada dei ricordi e sono giunta
nel luogo della mia memoria.
Non ci sono più i vecchi a cantar canzoni
sull’uscio di case adombrate da alberi di giacinto
Non ci sono più i ragazzi nascosti dentro corpi di
uomini stanchi.
E le vie che portavano alla ferrovia dove
un nonno benevolo raccoglieva nere more
in cartocci di carta di giornale.
Ricordo la sua mano forte trattenere la mia,
il suo sorriso sotto baffi ormai bianchi.
Non ci sono le grida dei bambini confondersi con le mie.
Ricordo caldarroste brunite sul fuoco e pane arrosto
bruciato ai lati.
Ricordo i prati a gennaio quando sentivo
rinascere la vita, l’erba medica vestita a festa
e il cielo azzurro con le nascoste tempeste.
Ricordo i profumi e i colori.
Conservo queste immagini nel mio cuore.
Non voglio perdere il mio bagaglio prezioso
sarebbe come offendere Dio per i suoi doni.
Conservo come posso i miei ricordi, sono dolci
come le campane della chiesa a sera.
Come corse sul prato.
Sono dolci come il nonno che mi accarezzava
la testa .
Sono ricordi.
Sono miei.

12 Giugno 2004



DOVE


Dove sono i giorni?
Dove sono i mesi?
Gli ideali si sono ormai perduti
verso itinerari fantasma.
Non trovi il nesso in questa baraonda
omicida.
Rimani solo sotto una croce in questa terra
straniera.
Terra straniera e ostili genti
venisti in pace trovasti l’odio.
Come impazzita la morte corre
per cercare ancora proseliti,
il suo mantello trascina e il suo incedere
scombina.
Il tuo cuore si è inebriato solo per poco,
credesti di vedere un amico ed
era invece un nemico.
Aveva i tuoi occhi spauriti
e le tue labbra tirate
ma nel cuore aveva solo una rabbia assetata.
Bandito il sorriso e ucciso
il riso.
Sulla collina non ci sono che croci
ne puoi contare mille
se ti fermi un momento.
Ne puoi contare mille
se hai un momento.
Rimane incontrastato il veleno
dell’odio insano degli intrusi
che devono essere scacciati.
E’ questo il tuo oggi.
Venisti in pace trovasti morte.

Giugno 2004



ORIZZONTI LONTANI

Vieni con me verso mari agitati.
Mani di vento su guance bagnate
aneliti di baci su questa spiaggia
fantasma.
Il calore nasce e si spande
come crema artefatta e
il desiderio diventa sublimazione
forte del suo potere e ti invade
riempiendoti con i suoi mormorii
sommessi.
Con le notti calienti di un’estate
passata.
I ricordi diventano pagine bianche
ancora da scrivere e ti ritrovi
portata lontano nella risacca
di una nostalgia.
Il tempo prende per mano
i tuoi passi e ti conduce nel suo dominio
dove l’orizzonte
è cielo e l’alba imminente.
Guarda ancora lontano oltre
il nulla dove credo di scorgere
la vita che nascerà domani.
La vedi anche tu?
Sorridi con il coraggio che
nascondi sotto coltri di insicurezze.
Assicura al tuo animo la certezza che il
domani è vicino.
Oltre l’orizzonte.

Gennaio 2004




FIORI DI CARTA


Sono stati trattati come fiori di carta
questi giorni perduti.
Sono stati strappati e lasciati
marcire nel fango.
Sono bruciati in un rogo
dove ho visto decine di facce
attonite mentre il mattino ci trovava
abbracciati ma lontani.
Fiori sciupati in una sola notte,
petali spenti e odori nascosti
sotto foglie morte.
Ma sotto quei fiori di carta
c’era ovunque il tuo ricordo
mascherato ma riconoscibile.
C’era la tua mano nella mia
parole di incitamento e pianti.
Sono solo ricordi i fiori di carta
ma sento ovunque il loro profumo.

Anno 2004



CIURI ‘I CATTA


Foru trattati comu ciuri ‘i catta
stì ionna pidduti.
Foru strazzati e lassati
‘nfracidiri ‘nto fangu.
Foru bruciati ‘nto focu
undi vitti tanti facci
stralunati mentri ‘a matina ‘ndi trovava
‘mbrazzati ma luntani.
Ciuri pidduti ‘nta na sula notti,
petali stutati e ciauri ‘mbucciati
sutta fogghi motti.
Ma sutta ddì ciuri ‘i catta
c’era a tutti i bandi u tò ricoddu
mascaratu ma riconoscibbili.
C’era ‘a tò manu ‘nta mè
paroli d’incuraggiamentu e lacrimi.
Sunnu sulu ricoddi ‘i ciuri ‘i catta
ma sentu a tutti i bandi ‘u so’ prufumu.



HO PRESO IL TUO CUORE

Ho preso il tuo cuore per mano e ti sei lasciato guidare,
tu volevi il mio cielo, io il paradiso.
Ho superato il confine con la notte per ritrovare il
nostro giorno.
Ero cieca e adesso vedo dentro i tuoi occhi che ora
rispecchiano i miei.
Vedo le miserie degli uomini retrocedere
a passi da giganti
e non rimaniamo che noi
in questo presente.
E l’arte impera sulla vita e su noi.
Ci lasciamo guidare forti dei nostri ideali
mentre palpiti nuovi risvegliano i sensi sopiti.
Ci risvegliamo in un giorno nuovo che profuma
di vaniglia e di latte.
Ripercorriamo a ritroso i nostri passi e ci sono
carezze e baci, sgridate e schiaffi.
E ci sono passeggiate di sera e sonni sereni
la notte.
Siamo bambini lasciati correre per le strade,
studenti ansiosi davanti cancelli chiusi.
Donne sconfitte e uomini soli.
Siamo noi, mercanti di anime e carcerieri.
Vittime liberate.

Ottobre 2004



I SOGNI MUOIONO ALL’ALBA


Poiché i sogni muoiono all’alba
salviamo il mondo prima che venga giorno.
Coriandoli dispersi questi giorni andati alla deriva.
Forse domani avremo gli stessi occhi e le stesse bandiere.
Ma è ancora presto.
Vedo oltre l’angolo un presagio di quello che può essere il
domani.
Vicoli sporchi di miseria in un infinito dedalo di strade.
Gente rincorsa, gente carcerata,
bambini che corrono e voci che chiamano.
Donne che soffrono e che gridano invano.
C’è un viandante che tende la mano,
ci sono io, ci sei tu,
c’è tutto il mio mondo chiuso quaggiù.
Voglio salvarlo, voglio vederlo più bello e saggio.
Un cielo terso e un mare chiaro
davanti al quale tessere fiabe.
In queste vie piene d’amore
c’è ancora molto da vedere.
Sono gli uomini quelli da cambiare,
i soli con i fucili in mano.
Ma il domani è già ora.

15maggio 2004

I miei racconti


VINCITRICE del PREMIO "AUGUSTA PERUSIA" Grifo d'oro- ventitreesima edizione
Perugia, sabato 7 agosto 2005



MOTIVAZIONE DI "LA BOTOLA"

Un vecchio professore in pensione ripercorre con la mente le fasi che hanno contrassegnato la sua esistenza. I ricordi si affastellano nella sua memoria e la presenza della moglie, anch'essa vecchia e malata, non l'aiuta a sopportare le ingiurie del tempo. La storia ha un finale drammatico con la morte dei due coniugi. Il racconto è scritto in un linguaggio forbito e pertinente, chiaro ed efficace.

La Botola

Il vecchio si mosse lentamente sotto le coperta cercando di non fare rumore. Un fagotto informe gli giaceva accanto. Il sole era spuntato già da un pezzo, indugiava ancora sulla sua faccia rugosa e nella stanza arredata in modo spartano, ma lo avrebbe fatto ancora per poco.
Il letto, un armadio e un grosso comò era tutto il mobilio presente nella stanza, non figuravano invece tappeti ai piedi del letto, Nina avrebbe potuto inciampare e non c’era un lampadario appeso al soffitto, troppo faticoso da pulire. Solo una lampadina punteggiata da escrementi d’insetti riusciva a fugare parte delle ombre della stanza, ma erano sempre tante quelle che non riusciva a snidare quando di mattina presto si svegliava con la sensazione di stare per annegare.
In quel momento non aveva nessuna voglia di muoversi, le sue giunture sembravano fissate su cocci di vetro e quella stanza così poco riscaldata non lo aiutava con i reumatismi, per non parlare delle sue gambe che dentro il pigiama sembravano tanto dei manici di scopa.
Anche i capelli avevano perso parte della loro vitalità, erano ormai ridotti a fili di ragnatela radi e giallognoli.
Quello ormai alle porte era il peggior inverno degli ultimi dieci ed erano ormai ottanta gli anni che doveva trascinarsi dietro come un vecchio cane con due zampe rotte. Si sentiva patetico e si chiedeva sempre più spesso a che scopo vivere in quelle terribili condizioni. Solo dolore, cassetti pieni di pillole, nient’altro che placebo e ancora dolore. Eppure la mente era lucida nonostante lo scorrere degli anni, guizzante come una rana dentro uno stagno anche se la sua giovinezza adesso era solo un ricordo. Ed era quella che veramente contava. A volte stentava a riconoscere quel suo viso macchiato e macilento allo specchio, quel suo corpo scarno. E poi la realtà era sempre presente con le sue lunghe dita fredde a bussare alla sua porta come una strega pronta a fare un altro maleficio.
Nina, la donna che aveva sposato quarant’anni prima non c'era più, era stata sostituita da un essere alieno senza più cervello. Altro colpo mancino di un destino baro che lo perseguitava ormai da tempo.
L’odore penetrante e acido di urina permeava tutta la casa; l’incontinenza della moglie era andata peggiorando nel corso degli anni. Mai avrebbe creduto di dover fare i conti con un’arteriosclerotica che rifiutava di curarsi. E quando la ragione, raramente, faceva capolino nella mente di Nina erano pianti isterici, scene di prostrazione profonda, promesse. Ma le promesse invariabilmente finivano per essere dimenticate cadute dentro un ingranaggio mal funzionante.
Quando era fuori di testa completamente, riusciva a decorare la loro camera da letto con tutto quello che era in grado di spremersi da dentro. Ci godeva nel farlo, in quei momenti la sua mente sconvolta era capace di farle credere di essere nel giusto. Ed era in quei momenti che gli giungeva una voce.
Dai fuoco alla casa! Dai fuoco alla casa!
E prima le lacrime e poi la rabbia avevano il sopravvento, ma toglieva lo sporco senza lamentarsi. Una vita dura tanto da ridursi a voler uccidere la sua compagna e farla finita a sua volta. Poi al vecchio giorno si aggiungeva il nuovo e il risveglio lo trovava in uno stato d’animo migliore e la sua vita diventava accettabile e come una ruota tutto riprendeva a girare. Gli anni buoni della loro vita in comune, ed erano tanti, erano fuggiti via senza un battito d’ali. Un tempo c’erano stati dei parenti e pranzi fatti insieme ma adesso qualcosa li teneva lontani, probabilmente la malattia e la solitudine, come quei cavalli che si ritraggono da una pozza d’acqua avvelenata. Ed era un vero dolore quando aveva creduto di poter contate almeno su alcune di quelle amicizie. Nonostante tutto, però, c’erano giorni ancora buoni e, anche se sapevi che il Calvario era appena dietro l’angolo, pazienza. Purtroppo il colpo basso era sempre lì in agguato.
Forse la primavera era il periodo migliore durante il quale lei si recava in giardino a recidere dei fiori per il vaso del soggiorno o quando si metteva ai fornelli senza bruciare ogni cosa. Si godeva quei pochi momenti senza pensare al resto.
Ma aveva davvero insegnato un tempo?
Certamente se doveva fidarsi delle foto che c’erano nel suo studio. Principalmente erano foto di gruppo. Enzo era molto più giovane, i suoi capelli quasi completamente neri, la pelle liscia e una vivacità negli occhi che trapelava anche dalle diapositive.
Entrò nello studio e si chiuse la porta alle spalle. Nina dormiva ancora il sonno dell’impasticcata. Si sedette con cautela, emettendo un debole lamento, guardò meglio le foto piene di ragazzi sorridenti. Ricordava la sua borsa di pelle ormai in solaio sempre piena di compiti da correggere e la voce di Nina che lo chiamava per la terza volta.
Vuoi deciderti a venire, si sta freddando tutto! – Quante volte gli aveva portato il vassoio direttamente nello studio! Un atto d’amore che la diceva lunga sul loro rapporto. E adesso…
Si bloccò in tempo, non voleva pensare a quanto gliene rimaneva, chi dei due avrebbe lasciato l’altro e come sarebbe stato morire. Fece qualche passo e si fermò. Certo il cervello ti presenta sempre una cassa intera di quesiti anche se tu non sei pronto e in grado di rispondere. Non sempre almeno. Cercare delle risposte a volte può farti più male di vedere tua moglie che abita qualche altro pianeta con la sua mente malata.
Si sedette nuovamente alla scrivania, con le braccia appoggiate sul tavolo, c’era della polvere vecchia di settimane e tutto sembrava opprimente con le imposte chiuse. Si alzò, non trovando pace e aprì la finestra, respirò l’aria che proveniva da fuori, fresca e corroborante, ideale per una passeggiata.
Sentì dei passi …
Erano rumori proveniente dal passato.
Erano i passi risuonati trent’anni prima in una scuola media, passi affrettati che riecheggiavano in un corridoio vuoto nell’ora di lezione.
Si era aspettato quel momento. Quando aveva sentito bussare si era alzato facendo segno ai ragazzi di stare zitti. Era amato da quei ragazzi più di quanto immaginasse.
Avanti! – aveva detto ed ecco comparire il preside nel suo ormai storico abito blu liso ai gomiti, aveva fatto alcuni passi e si era fermato al centro della stanza. Nelle mani teneva, come un’arma, un mazzo di foto, ne aveva sollevata una, come un trofeo, e aveva fatto cenno a Umberto Saporita, un ragazzo di seconda media, di avvicinarsi. Il ragazzo era arrossito e aveva abbassato la testa. Sulle labbra di Enzo era apparso un sorriso da idiota che non era il benvenuto, dopotutto era una scenetta comica se non si fosse trattato di uno dei suoi alunni. Tentò di ricacciare indietro quel sorriso, troppo tardi, il preside ne aveva scorto l’ombra e il suo sguardo era pervaso da una strana luce che Enzo già conosceva.
Erano stati amici un tempo ma qualcosa si era incrinato, come una lastra di ghiaccio attraversata da una crepa, dopo una partita a carte durante la quale il preside, il suo vecchio amico Augusto Pagano, lo aveva accusato di barare. Per poco non erano arrivati alle mani.
Hai barato un’altra volta – lo aveva investito con quel suo alito cattivo e tanto era bastato per scatenare il finimondo. Le carte erano finite sul pavimento, sparpagliate e calpestate dalla sua furia da ragazzino capriccioso. Adesso Enzo stava facendo come gli era stato chiesto ma, seguendolo lungo l’interminabile corridoio, gli era venuta l’insana voglia di sferrargli un calcio in quel suo culo rinsecchito.
E’ uno sconcio – lo sentì dire all’improvviso – una mancanza di rispetto, alcuni di quei tuoi ragazzi dovrebbero …
Continuò per un poco, poi si zittì quando incontrarono altri professori.
Ecco, lo aveva detto, era uno dei suoi ragazzi. In quella classe entravano e uscivano circa una dozzina di insegnanti fra interni e supplenti e quelli erano considerati solo suoi ragazzi.
Non si addiceva certo alla sua professione, ma le mani gli prudevano dalla voglia di dargli una spinta e sbatterlo contro il muro. Ma ci sono sempre delle regole che, ti piacciano o no, devi rispettare, se non vuoi uscire dal branco delle persone affidabili per far parte di un folto gruppo di asociali e disoccupati da tenere a distanza.
Il preside moriva dalla voglia di scrivere sul suo curriculum cento note di demerito e non solo una, e per tutti i diavoli dell’inferno non sarebbe stato lui a far sì che questo accadesse.
Erano entrati in presidenza seguiti da un ragazzo rassegnato, ma quella faccenda si riduceva a una faida fra loro due, in realtà il ragazzo avrebbe potuto anche non esserci.
Augusto stai facendo di un’onda un maremoto. Solo per un gesto immortalato in una foto! Basterà una nota sul registro …
Non finì la frase poiché notò il cambiamento del suo superiore che corse come la corrente sul filo e lo investì come una forza magnetica.
Tu pensi che sia giusto, tu pensi … - nuovamente lo sferzò in pieno viso con l’alito pestifero di chi ha un cattivo funzionamento dell’intestino e non fa niente per rimediare. Per quel suo problema tanti erano quelli che si tenevano alla larga.
La foto in questione era stata scattata mentre due delle dita di Umberto erano spuntate come due bastoncini dietro la testa di quel piccoletto con gli occhiali che rispondeva al nome di Basile Francesco. Il segno era quello tipico di un paio di corna.
Per favore Augusto non credo …
Non lo fece finire- tu non credi, cosa non credi che l’abbia fatto apposta? Su questa scia avremo più di un caso di insubordinazione.
Parlava come se fossero nell’esercito ed Enzo sapeva che stava inveendo contro quel ragazzo a causa sua.
Facciamola finita Augusto, lascia che al ragazzo ci pensi io!
Niente affatto tu con i ragazzi sei sempre stato un pappamolle …
A quel punto, mentre l’altro parlava, si sentì invadere la testa da un nugolo di vespe, si vide nell’atto di afferrare il pesante portacenere di cristallo e fracassarglielo in testa. Vide se stesso, il proprio braccio stranamente pesante ma determinato, la sua mano su quel freddo oggetto e la forza che metteva nella spalla per fare il maggior danno possibile. Lo avrebbe guardato dibattersi come un pesce fuori dall’acqua, boccheggiare e sbavare.
Vedeva, con un’intensità da fare male agli occhi, il sangue di un rosso acceso che si riversava sul tappeto persiano che c’era sotto la scrivania, i capelli inzuppati e ritti in piccole ciocche disordinate, gli occhi stravolti a mostrare solo il bianco, la bocca atteggiata a un grido che nessuno avrebbe mai sentito. Stava vedendo con la più sfrenata delle fantasie l’agonia di quell’uomo ed era una brutta china quella che stava salendo, un cattivo presupposto su cui intavolare la sua vita futura e quella della sua famiglia.
C’era chi contava su di lui, ma nessuno poteva impedirgli almeno di sognare.
Ripensò a sua moglie e al suo ragazzo che sarebbe morto di lì a qualche anno. Al conto del droghiere, del macellaio e a tutte le altre spese che aspettavano solo il suo stipendio per essere fatte. D’accordo vedi tu cos’è meglio fare – disse accondiscendente – dopotutto sei tu il capo di questo istituto (di stronzi).
Ma queste ultime parole gli rimasero impigliate tra la mente e la gola senza riuscire mai a venir fuori.
E forse – pensò – è un bene.
L’altro lo guardò sospettoso, era un brutto osso, lo era sempre stato fin da quando il destino li aveva messi insieme in quel grande calderone in via Marconi a Niali. Un istituto statale in un piccolo paese di provincia, come tanti.
A molti di quei ragazzi sarebbe bastata una semplice sospensione per chiudere con la scuola, lui lo sapeva bene e lo sapeva anche il preside, ma non gliene fregava un accidenti. Quei ragazzi per lui erano solo feccia, figli di contadini ignoranti, di povera gente che non aveva alcun diritto di trovarsi in quelle aule.
L’indomani non si meravigliò più di tanto della piega che avevano preso gli eventi. Dopotutto non rientrava più nelle sue possibilità porvi rimedio. Il ragazzo non ritornò più a scuola, il suo gesto era costato più del necessario, la sua vita a questo punto avrebbe preso un percorso diverso, la sua schiena si sarebbe rotta sotto le fatiche. Avrebbe sposato probabilmente una donna che ben presto sarebbe diventata sfatta ed esigente.
Una vita stravolta da un piccolo scherzo immortalato su una fotografia formato dieci per quindici.
Adesso era lì a guardare quella foto dopo tanto tempo, sapendo che era bastato così poco al padre del ragazzo per farlo rimanere a casa e mettergli una zappa in spalla.
Tre anni dopo l’accaduto Enzo era ancora insegnante di italiano e nulla era cambiato. I suoi giorni sembravano un mazzo di carte formanti un castello che a causa di qualche momento davvero difficile rischiavano di mandare in aria tutta la costruzione. I ragazzi andavano e venivano come sempre, alcuni si ritiravano di loro spontanea volontà, altri venivano allontanati e scomparivano alla sua vista. Niente riusciva più a toccare la sua sensibilità, quasi niente almeno.
Le classi gocciolavano acqua d’inverno e sembravano forni d’estate. I banchi e tutto il resto dovevano essere sostituiti ma sembrava una battaglia persa in partenza. I giorni erano tutti uguali, niente di nuovo sul fronte delle novità.
Era un mercoledì mattina, se lo ricordava perfettamente perché era stato lo stesso giorno che aveva portato sua moglie da uno specialista di nervi. Quel mattino si era recato a scuola sulla sua vecchia Fiat senza l’entusiasmo che lo accompagnava all’inizio, ma solo con la consapevolezza di adempiere ai suoi doveri. Verso le otto e trenta di quel giorno un piccolo gruppo formato da tre insegnanti si era finalmente deciso a chiedere strutture migliori per i ragazzi e delle condizioni migliori per loro. A capo del gruppo c’era Enzo, apatico, ma pronto a far sentire la sua voce. Aveva bussato alla porta della presidenza.
Nessuna risposta, nessun invito a entrare. In seguito avrebbe riferito agli altri che aveva sentito come un mugolio.
Entriamo - aveva detto con uno strano baleno negli occhi nocciola- deve sentire quanto abbiamo da dire.
Si erano fatti avanti. Lui deciso, pronto a tutto adesso che aveva anche molto meno da perdere, gli altri quasi in soggezione nella grande sala presidenza. Ed eccolo lì il prevaricatore, l’insegnante senza cuore che aveva pensato solo alla sua carriera. La bocca socchiusa, come a voler dire qualcosa circa la loro irruzione nel suo territorio e gli occhi veramente, aveva ricordato dopo, quegli occhi erano spenti e l’aveva notato subito, ma in un primo momento non aveva capito.
Quegli occhi erano morti, come tutto il resto.
Dalle indagini e dall’esame autoptico era venuto fuori che l’omicidio era avvenuto poco prima del loro arrivo in presidenza, probabilmente l’assassino stava ancora cercando di allontanarsi, quando loro tre erano in corridoio a marcare i punti da esporre al preside. Mentre loro cercavano attraverso le parole di ottenere qualche diritto in più, l’assassino passava ai fatti.
Augusto era stato spinto forse con le minacce, forse addirittura con la violenza gratuita verso la sua poltrona preferita. Su quella poltrona aveva avuto la sua agonia causata da nove coltellate tra addome e torace. Una decima coltellata era stata forse solo pensata, all’altezza dell’ombelico c’era un piccolo taglio dato di striscio, forse l’assassino aveva sentito rumori di passi in corridoio e si era eclissato. Comunque, ormai non aveva più importanza.
Ricordava ogni cosa molto chiaramente anche dopo tutti quegli anni. Le sue mani sudate posate involontariamente sulle spalle del preside.
Non tocchiamo niente – aveva suggerito astutamente un suo collega, pur preso nella morsa del panico non aveva perso la testa come gli altri.
Aveva distaccato immediatamente le mani come da una pentola bollente, e solo in quel momento si era accorto di essere finito nella pozza di sangue che c’era sotto e tutto intorno alla poltrona. Si era subito allontanato, ma le suole delle sue scarpe avevano lasciato delle tracce.
Adesso stava ricordando quella stanza riempirsi di gente. Qualcuno aveva gridato, forse una ragazza. C’era stato un vociare in corridoio. Le lezione erano finite prima quel giorno.
Sentiva sempre più vicino ululare e gemere, il suono delle sirene della polizia quando il cielo improvvisamente si era fatto scuro per un nuvolone che si trovava solo nella sua mente e davanti ai suoi occhi. Aveva perso i sensi per non più di un paio di secondi, ma tanto era bastato per farlo uscire immediatamente da quella stanza dove l’odore di rame infuocato tipico del sangue aveva impregnato ogni cosa.
In quel preciso istante aveva associato quell’odore con la sua infanzia. Ricordi buoni sommati a ricordi violenti.
Un sabato al mese, suo padre entrava nel pollaio e sceglieva una gallina vecchia che non dava più uova con la frequenza delle più giovani. Torcere il collo a quella malcapitata riusciva a scioccare la sua mente di bambino. L’odore del sangue lo nauseava ancora, come quando suo padre tagliava a pezzi la carne sul vecchio ceppo. Ma quando era l’ora di metterla sotto i denti quel ricordo veniva accantonato per la volta successiva, quando poteva toccare a uno di quei conigli bianchi con gli occhi rossi.
Ricordava le grandi mani del padre ricoperte di sangue e di piume, l’odore di uova versate per terra, l’ultimo grido di quegli animali. Ma quello era l’unico modo per sfamarsi e quello che aveva davanti adesso era un assassinio.
Uscì correndo e percorse il corridoio fino al bagno dei professori dove si fermò come colpito da un infarto. Stava osservando che le impronte di sangue, che aveva lasciato sul pavimento del corridoio dopo esser entrato nella pozza che c’era intorno alla poltrona della vittima, non andavano in una sola direzione.
E come mai non l’avevano notato cinque minuti prima?
Un’associazione di idee lo investì come il gancio d’acciaio di una gigantesca gru.
Dov’era stato prima di raggiungere i colleghi? E cosa aveva fatto senza ricordarsene?
Non è possibile – si disse – non sono sceso là sotto da qualcosa come un milione di anni.
E tutto questo, difficile da credere, era avvenuto più di trent’anni prima.
Era il 1960.
Rendersene conto fu come ricevere in faccia un secchio di acqua gelata.
Non gli era rimasto più niente ormai. Se fantasmi c’erano ancora, il silenzio superava le loro grida. Un grosso camion strombazzò in strada il suo possente ruggito di protesta. Uno stormo di passeri sfrecciò verso il giardino incolto che c’era dietro la casa e scomparve. Sentì rumori al piano di sopra e alzò gli occhi al cielo.
Forse Nina si era alzata o forse quei rumori erano solo nella sua testa.
Niente è per sempre – disse alla stanza vuota – e forse è un bene.
Ormai aveva il terrore di formulare qualunque pensiero – dopotutto sarebbe stato meglio finire questo dramma. La morte a volte può essere una liberazione.
Si portò una mano,deformata dall’artrite nefasta che lo stava divorando, alla bocca. Troppo tardi per rendersi conto che aveva espresso un altro desiderio e con la paura che potesse essere esaudito. Una forza smisurata lo costrinse ad alzarsi, i piedi strascicati in vecchie pantofole di pezza del condannato a morte. Mani gelate e palato secco, come carta sotto il morbido della lingia.
Scese per la botola, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta e questo gli fu di consolazione. Qualcosa lo avvinghiò immediatamente. Lo stringeva alla vita ma non tanto da non farlo respirare. I suoi occhi scuri, incredibilmente giovani, adesso erano rassegnati e anche se umidi di lacrime ne convenne che non valeva più la pena di versarle.
Era troppo tardi.
Non credeva di ricordare tutto, ma lo avrebbe riscoperto presto a sue spese, se il cuore avesse retto. Nonostante tutto, ebbe ancora tempo sufficiente per pensare… A quella volta quando era molto più giovane…
Era tornato a casa prima, come se qualcuno lo spingesse ad affondare il pedale dell’acceleratore. Aveva aperto la porta di casa dopo aver soppesato in modo febbrile le chiavi, cercando quella giusta. Era corso nello studio. Nina non era ancora rientrata. Aveva chiuso la porta con un calcio e, nel farlo, aveva scorto il tappeto sul pavimento del suo studio appena scostato e tanto gli era bastato. Si era avvicinato e lo aveva sollevato completamente, poi aveva tirato a sé il gancio del coperchio della botola, un coperchio di legno che sembrava pesare come l’acciaio.
Era avvenuto così che aveva guardato all’interno di quel baratro e aveva esclamato: - E’ in casa mia e ne sono il responsabile!
Poi lentamente, ma non del tutto inaspettato, era avvenuto qualcosa.
Un lungo tentacolo glabro e rosa, il colore falso delle bambole di plastica di un tempo, era apparso come il serpente dal cestino di un fachiro al suono del suo strumento. Era grosso quanto e più del ramo di una quercia e finiva in lunghe dita fornite di unghie scure e frastagliate e si vedeva bene che potevano essere mortali.
Dopo pochi istanti era stato ghermito, tirato lentamente e risucchiato all’interno della botola. Il suo cuore aveva cessato di battere per un lungo tormentato momento, solo quando non ci sperava più aveva ripreso a pompare sangue in modo quasi regolare. Quindi, la botola era stata richiusa come l’orbita vuota di un cieco dietro la palpebra cadente. Il suo coperchio era ricaduto con un tonfo al pari di quello di una bara, richiamando alla mente antichi sepolcri egizi, scavi, riesumazioni. Il tappeto si era gonfiato prima di ricadere su di essa, come se una massaia scrupolosa fosse passata a rimettere in ordine.
Quella volta era risalito solo verso sera con una sete nuova che non era solo di acqua.
Adesso si sovrapponevano come in una pellicola parzialmente nitida, diventata all’improvviso fin troppo chiara, avvenimenti del passato e del presente ugualmente inquietanti.
Era nuovamente vittima di un essere arrivato in quella casa in modo misterioso, che viveva bene nel buio più totale e che gli era sufficiente di tanto in tanto parte del suo dolore per cibarsi. Per lunghi periodi se ne stava come in letargo a rigenerarsi e quando il suo tempo era arrivato la sua fame diventava famelica. Il suo risveglio un abominio.
Sospettava di sapere di cosa si nutrisse. Del suo terrore cieco e delle sue umane fragilità. Erano stati in simbiosi per trent’anni, una sorta di reciproco parassitismo e ogni volta cercava di dimenticare per continuare a vivere, per non impazzire. Sarebbe stato facile lasciarsi circuire e scomparire, ma la sua voglia di vivere superava ogni cosa.
Adesso si lasciò raggirare più facilmente di un tempo, era terribilmente stanco. E adesso era solo un vecchio.
Dopo qualche istante sentì il coperchio che ricadeva sigillando se stesso e quell’essere.
E’ la fine! – disse sentendo il tonfo, con la mente già alla deriva.
La luce scomparve, come inghiottita da una voragine in un tunnel!
Fu buio immediatamente e poi più nulla. Ormai erano lontani i suoi esterni, si stava allontanando anche dai suoi stessi pensieri. E a un tratto tutto fu sfumato, divenne come un sogno evanescente e anche il sogno alla fine evaporò.
Il giorno dopo, quattro marzo e quello dopo ancora, la casa rimase chiusa dentro un silenzio tombale. Il terzo giorno qualcuno si insospettì, forse un vicino o un amico. Fu a quel punto che, rompendo un vetro della finestra che dava in cucina, alcuni agenti entrarono in casa.
Tutto sembrava apparentemente in ordine, ma al piano di sopra li aspettava una macabra sorpresa. Nina, l’anziana moglie del professore, giaceva sul pavimento in un lago di sangue ormai nero. Era stata pugnalata al ventre da tre coltellate mortali. Era passata dall’altra parte per dissanguamento. Il locale angusto, posto fra la camera da letto e il bagno, puzzava, come una cesta di patate andate a male.
Il commissario Farina, pur avendo visto nel corso della sua carriera molti omicidi, prima di entrare si premette un fazzoletto sul naso e la bocca.
Badate di non toccare niente – ordinò ai suoi uomini – ci mancherebbe solo che quelli della scientifica ci fossero addosso anche per questo. Non dimenticate cosa avvenne al numero 45 di via Case Rosse.
Quella volta erano stati accusati di aver inquinato le prove ed erano stati trattati come dei deficienti di provincia.
Scenda commissario, c’è dell’altro! – si sentì gridare dal piano di sotto dove due agenti stavano perlustrando la zona.
Il commissario Farina, un omone intorno ai centoventi chili per uno e novanta di altezza, con una capigliatura ben rasata e la faccia pulita dell’agente onesto, si fece a due a due le scale, provocando un rumore come di bisonti che stanno per caricare.
Quando immise la testa dentro la stanza, lo vide subito.
Il professore era nel suo studio, seduto alla scrivania con la pistola ancora in pugno, la testa reclinata da un lato e gli occhi sbarrati del dannato.
Al centro del pavimento era ben visibile una botola un metro per un metro, il coperchio era sollevato e dentro sembrava che non ci fosse nessuno.
Il commissario aveva fatto un paio di passi ed era arrivato al ciglio tanto di sembrare in procinto di calarsi dentro.
Ma Farina aveva scorto qualcosa, forse un’ombra più consistente delle altre, un barlume di pelle chiara tra il buio che regnava sovrano nei quattro angoli.
E non aveva sentito forse la tentazione coercitiva di scendere sotto?
Si era staccato immediatamente prima che la cosa gli prendesse la mano.




VINCITRICE del "PREMIO BIANCOSPINO" CON IL RACCONTO "TRASLOCO"

(Gualdo Tadino, martedì 1 agosto 2006)

MOTIVAZIONE DEL PREMIO

Il trasferimento in una casa più spaziosa da parte di una modesta famiglia provoca un vero trauma per i due figli affezionati alla vecchia dimora. L'evento dà l'avvio a una serie di fatti strani, ingigantiti dalla fantasia dei minori, che costituiscono la trama di questo racconto denso e articolato opportunamente dalla capacità narrativa dell'autore.


Trasloco

La casa era stata sola per anni nel completo abbandono.
Ma sotto un cielo primaverile nella parte orientale di Niali, tra un negozio di ferramenta e il Club locale di calcio, si preparava a cambiare la sua condizione.
Stanze vuote e buie attendevano di essere riempite. Anche l’aria lì dentro attendeva da qualche tempo di essere risucchiata dentro condotti umani.
Era grande, economica e paziente.
Aspettava.
Una rampa di scale in legno antico coperto di polvere conduceva in soffitta.
Nel buio insito nella casa il pomello di quella porta girò con un solo leggero clic. La pesante porta di ciliegio cigolò piano e uno spiraglio del nero più totale s’intravide al di sopra delle scale.
Un altro cigolio più marcato seguì il primo fino a quando il chiasso dei bambini fece tacere ogni altro tentativo di attirare l’attenzione.
E’ quella la casa, mammina? – Era un bambino grassoccio di quasi tre anni. I suoi capelli neri come l’ala di un corvo gli incorniciavano il visetto intelligente, in cui spiccavano gli occhi come due carboni accesi.
La sua voce squillante come le trombe del giudizio era capace di perforare i timpani, se ci si metteva di buzzo buono.
Si, tesoro, è questa. Stavolta avrai anche tu la cameretta che hai sempre sognato.
Sognato, sognato – gridò, mentre correva lungo il vialetto, per arrestarsi di botto davanti alla porta chiusa.
Dietro di lui la donna alta e bionda procedeva accanto ad un uomo massiccio e con una leggera stempiatura. Due genitori pronti a tutto per l’unica casa che potevano permettersi dopo tredici anni di dura economia.
Più indietro un ragazzo sui dieci anni piuttosto taciturno li seguiva di malavoglia.
Dalla macchina scura parcheggiata sul viale stava scendendo un altro uomo, un tipo segaligno con un completo a tre pezzi grigio a righe nere. Era il venditore di case ed era stato molto convincente sul prezzo e sulla possibilità di rateare l’intera somma.
Una nuova abitazione era un’ottima aspettativa per quella tranquilla famigliola. Un sogno che avevano coccolato per anni e che ben presto si sarebbe trasformato in incubo.
Mentre gli altri visitavano la casa con le sue accoglienti camere, il soggiorno grande quanto il loro vecchio appartamento, i bagni e tutto il resto, il ragazzino di dieci anni si allontanò restandosene per conto suo.
Sedette per qualche momento sulle scale che portavano in soffitta, i gomiti sulle ginocchia, a ripensare a quali e quanti cambiamenti l’aspettavano da ora in avanti.
Rimase lì per un po’ finché, come ogni altro bambino della sua età, decise che aveva riflettuto abbastanza e che era tempo di muoversi.
Lo fece, mosse qualche passo verso il soggiorno, quindi ritornò indietro come attirato da qualcosa, alzò gli occhi verso la porta in cima alle scale, a quel punto salì i gradini.
C’era polvere là sopra, buio e polvere, la sentiva nel respiro ma non gliene importava. Voleva allontanarsi da quei due che avevano tutte le intenzioni di comprare la casa, che cercavano a tutti i costi di portarlo via dal suo vecchio quartiere, dai compagni, dalla sua scuola e da tutto ciò che conosceva da quando era nato.
Aveva pianto, perfino dopo anni che non succedeva più, ma non avevano cambiato la loro decisione che era forse la peggiore che avessero mai preso.
Dovunque sia per me non va bene – aveva dichiarato qualche giorno prima – non voglio andar via, non voglio, non voglio – il pianto nella voce a quel punto si era trasformato in urla stridule.
Adesso smettila! – gli aveva urlato a sua volta la madre – Non puoi fare sempre e solo quello che ti passa per la testa. Questa casa è troppo piccola e umida, non possiamo restarci per il resto dei nostri giorni.
Marco non aveva detto niente, capiva benissimo quando era sconfitto dai grandi. Il fratellino era ancora un cacone che non andava nemmeno all’asilo, quindi non aveva ancora amici. A quell’età si è come sparati sulla terra per frignare e farsela addosso metodicamente.
Questo posto non mi piace per niente – disse a se stesso, aprendo la porta della soffitta mentre si accingeva a fare una grossa scoperta. Magari la più grossa della sua breve vita.
Ruotò il pomello d’ottone che non oppose la minima resistenza. Alcuni luoghi non hanno bisogno di essere chiusi a chiave, qualunque ospite è bene accetto.
Se solo cinque minuti prima era salito lentamente, quasi con apatia, ripensando ai suoi compagni e alla sua vecchia scuola, adesso scendeva a razzo, non pensando a nient’altro se non alla sua sanità mentale che vacillava.
Fosse stato un adulto avrebbe avuto un colpo, lì sulle scale, ma trattandosi di un ragazzino di dieci anni il suo primo istinto fu quello di sfrecciare verso la macchina sul viale e di chiudersi dentro, rannicchiandosi in un angolo del sedile posteriore come quando era più piccolo e veniva sgridato.
Durante il tragitto verso casa aveva ripensato a quello che aveva visto o creduto di vedere. Sembrava tutto campato in aria persino per un bambino, anche se qualcosa gli diceva che tutto era reale e il solo ricordo lo faceva rabbrividire.
L’eco dei suoi passi sulle scale era un ricordo troppo recente. Giunto al pianerottolo, non avrebbe mai pensato a cosa lo attendeva al di là di quella porta.
Aveva ruotato il pomello e la porta si era aperta subito con un leggero cigolio come se non fossero anni che nessuno ci metteva piede.
Aveva cercato con tutta la forza, racimolata in meno di cinque secondi, di muovere qualche passo nel buio che si andava dissipando lentamente, mentre una luce lattiginosa si andava propagando dal pavimento verso le pareti e anche da quella scomoda posizione gli era possibile vedere più di quanto avrebbe voluto.
Forse sto per svenire – si era detto per consolarsi. Aveva ripensato alla volta che era svenuto a scuola davanti la cattedra durante un interrogatorio in piena regola sulla lezione di grammatica. Reduce da un’influenza malefica che quell’anno aveva avuto fin troppi ricoverati negli ospedali. Ma quella blanda giustificazione non reggeva, quella volta aveva visto costellazioni intere tra il buio più totale ed era crollato a terra schivando per fortuna lo spigolo della scrivania.
Qualcuno protegge i bambini e gli ubriachi da quelle loro strane cadute.
Stavolta la poca luce era lattea anche se riusciva a dissipare il buio più di quanto avesse voluto forse e il suo corpo per quanto ci sperasse non aveva alcuna intenzione di mollare gli ormeggi e svenire. Così poté vedere ogni cosa con estrema chiarezza.
Quasi al centro della stanza, tra il ciarpame generale e l’odore opprimente di muffa, come una ciliegina sulla torta, una vecchia sedia a dondolo in disfacimento si muoveva avanti e indietro, come se dentro ci fosse un peso consistente e la forza d’inerzia fosse stata messa in moto. Aveva fatto un passo avanti come trainato da una forza al di fuori d’ogni contesto reale.
Brucianti lacrime scorrevano sulle sue guance accaldate, mentre la sedia continuava a muoversi, emettendo un uggiolio sotto un peso che non doveva esserci. Aveva girato intorno alla sedia ormai con la lingua incollata al palato, le mani gelate e umide, un urlo seppellito in fondo alla gola che era il preambolo alla dannazione forse con l’intenzione di venire fuori e lacerare lo stato d’intontimento in cui era caduto.
In quel preciso attimo mentre il suo corpo gli urlava di scappare aveva visto la testa scarnificata che si girava a guardarlo.
Orbite vuote su guance infossate, labbra rovesciate all’infuori, mentre il dondolio continuava incessante nella stanza e nelle sue orecchie e le scale sembravano così lontane!
Il vialetto, un continente alla deriva, le voci dei suoi, lontane dal suo campo uditiva, ma così familiari, così rassicuranti.
Era fuggito dopo qualche attimo di vera agonia, quando finalmente qualcosa aveva stabilito che tanto poteva bastare e lo aveva lasciato andare.
Non è un bene tornarci. Mio Dio, non lo è – pensò correndo all’aperto, riempiendosi di aria e rinfrancandosi, mentre pensava che niente al mondo avrebbe potuto salvarlo – ma dubito che mi ascolteranno.
Un mese dopo le sue paure più nere si avveravano.
Voglio dormire con Marco - aveva piagnucolato il fratellino quella prima notte e lui tra lo sbalordimento dei genitori aveva accettato.
Le loro facce erano rimaste impassibili, quando contro ogni previsione Marco aveva esclamato – E va bene, lasciatelo dormire nella mia camera.
E mentre la luce nella stanza veniva spenta, nonostante riuscisse a vedere ancora gli scatoloni ai piedi del letto e gli alberi là fuori attraverso il vetro della finestra, i loro passi regolari si erano allontanati verso una notte di riposo dopo una giornata faticosa e si stendevano stremati su un materasso steso sul pavimento in un luogo nuovo e del tutto sconosciuto, un sudore freddo si impadroniva della sua pelle sopraffacendo ogni pensiero coerente.
Passò qualche tempo in cui credette davvero di poter dormire.
Marco? – sentì a stento la voce del fratello che lo chiamava.
Sì, Fabio, cosa c’è? – la sua voce era tremante, l’arroganza sepolta sotto un sottile strato di timore.
Ho paura, Marco. Cosa sono questi rumori? – Attesa nelle sue parole.
Stai zitto e cerca di dormire – sembrava categorico, anche se poteva darla a bere solo a quel piccoletto.
Ho sete – quasi un bisbiglio intimidito.
Zitto o ti mando in camera tua con tutti gli scricchiolii della casa – ma non lo avrebbe mai lasciato andare.
Ho solo sete, Marco, ho sete – Il piccolo piagnucolava, mentre lui riusciva a pensare solo al proprio terrore di dover tirare fuori delle coperte un braccio e accendere la luce sul comodino.
Il pianto era solo un suono di sottofondo.
Passò del tempo, quindi si fece forza – Ho paura – pensò sconsolato – e non so a chi confessarlo.
Titubante, con un solco in mezzo alla fronte, per la totale concentrazione, accese la luce, preparandosi a vedere ben più delle pareti di quella camera. Ma in realtà non vide niente d’anormale, solo il pandemonio che avevano lasciato prima di andare a dormire.
Uscì dalle coperte e si sedette sul bordo del letto – alzati, ti porto in cucina. Il bambino non aspettava altro, fu fuori dal letto con un balzo.
Ho anche fame – disse speranzoso.
Sei la piattola di sempre – fu la risposta di Marco e gli sorrise. Il piccolo sorrise di rimando. Il fratello maggiore non gli sembrava arrabbiato, come il più delle volte succedeva quando gli rivolgeva la parola. Gli aveva sempre fatto pesare il fatto di essere un nanerottolo che ruotava come un satellite intorno al suo pianeta. A volte trovarselo attorno e rispondere a tutti i suoi perché era un vero tormento.
Il piccolo non riusciva mai a chiudere il becco, ma a volte arrivava ad essere un vero tesoro.
In quel momento la sua mano tremava in quella del fratello, si sentiva stranamente a disagio a voler trovare conforto nel piccolo, era sempre stato il contrario.
Marco hai le mani fredde – se ne uscì come a volte gli capitava.
E’ tutta colpa tua che in piena notte mi tiri fuori delle coperte, ma andiamo ormai è fatta – disse subito dopo come per un ripensamento.
Vieni, Marco. E’ da tanto che non stavi con me.
In realtà era tanto tempo che ignorava il fratellino, i suoi pannolini, le pappine, gli orari del diavolo per un sonnellino. Ma adesso pregava Dio per la sua presenza in quella casa.
Il piccolo finì i biscotti e aspettò disposizioni dal fratello più grande. Avevano gli stessi capelli scuri del padre e, mentre Marco aveva occhi neri come carbone, Fabio aveva preso gli occhi chiari e languidi della madre.
Ora si ritorna a letto – ordinò laconico – ma prima devo prendere un bicchiere d’acqua per un rompiscatole da niente.
Si attardò qualche secondo in cucina, non di più, perso nei suoi pensieri di bambino alle prese con un tizio in soffitta che non riusciva a catalogare in alcun modo. Subito dopo si accorse che Fabio si era allontanato. Pensava fosse già in camera, ma quello, nella tutina da notte appesantita dal pannolino, stava dando la scalata a quei maledetti gradini troppo alti per lui ma ce la stava mettendo tutta per arrivare in soffitta. E stava procedendo troppo in fretta per i suoi gusti, quasi ce la faceva se non…..
Era a metà percorso cercando di tenere l’equilibrio, a volte rischiando di rotolare giù come un sacco di patate e rompersi la testa, quando Marco istintivamente si lanciò correndo verso quelle scale, lo afferrò per la vita e lo portò in braccio nella loro camera.
Non farlo mai più – lo sgridò con gli occhi luccicanti di dure previsioni – è talmente pericoloso…
Non lo farò più… - promise il piccolo così spaventato che il labbro inferiore era tutto un tremito.
Dormì poco e male quella notte. Il tempo sembrava una strada che procedeva verso l’infinito, sentiva tutto attorno un pericolo imminente. La feroce bocca del domani incerto e temuto era aperta.
Quando si svegliò, l’indomani, si accorse dall’orologio che portava al polso che erano già le otto e che il fratellino era sparito. Terribili previsioni gravitarono nella sua mente risvegliandolo all’improvviso. Scattò dal letto come una molla e si aggirò ormai in preda al panico per le altre camere. Ormai le ombre erano state fugate dal giorno che si era insediato in quella casa e che era il benvenuto.
Sbirciò nella camera dei suoi ed eccolo lì il malandrino, giaceva in mezzo a loro. Marco aveva creduto di non poter chiudere occhio e uno dei due aveva preso il piccolo e lo aveva portato nella loro camera.
Ho dormito eccome – pensò – senza neanche accorgermene.
Per arrivare in cucina, era inevitabile passare davanti la scala che portava in soffitta e il suo fascino era quasi coercitivo, sentiva come un flauto magico chiamarlo in quella direzione.
Rimase lì sbigottito per un paio di minuti, quando ad un tratto la portiera di un’auto sbatté così forte da destarlo dal suo torpore. Si riebbe e si avvicinò alla porta d’entrata.
L’aprì con cautela per vedere il visitatore sul loro vialetto.
Zio Gino – urlò dalla gioia.
Zio Gino era il fratello di mamma, non si era ancora sposato e non era disposto a farlo almeno per i prossimi dieci anni. A venticinque anni si possono fare di questi ragionamenti ma per Marco, ragazzo di sole dieci primavere, Zio Gino aveva già i suoi annetti.
Zio, dormono ancora – lo informò, mentre l’altro entrava in casa con le braccia aperte dove il ragazzino trovò rifugio.
Sono venuto a vedere come vi siete sistemati, sai il lavoro mi prende talmente.
Marco sapeva bene che lo zio aveva i suoi affari cui pensare, il giro di rappresentanza di occhiali lo portava in ogni parte d’Italia. Anche quando era morta la nonna, zio Gino era arrivato all’ultimo momento, giusto il tempo di portarla al cimitero. C’era stata la mamma ad accudire alla nonna. La mamma in quel periodo pensava a ogni cosa.
Marco alzò le spalle, desolato per quanto riguardava il trasloco. C’era stata non poca maretta con i suoi, perfino zio Gino ne era al corrente.
Le voci volano.
Lo so, per te è stato un duro colpo.
Già – ammise – anche più duro di quanto pensi.
Nervosamente si passò una mano tra i capelli in disordine. – Ti ricordi la vecchia casa com’era accogliente? – disse con nostalgia.
Anche questa non sembra malaccio – disse lo zio e Marco ebbe il sospetto che lo stesse dicendo solo per consolarlo.
Dovresti salire in soffitta – pensò caparbiamente – in quel posto dove non c’è proprio niente d’accogliente.
Dove sono andati a finire quelli che ci abitavano prima di noi? – chiese invece con uno strano pensiero in testa.
Penso in ospizio – fu la risposta dello zio.
Ne sei sicuro? – Non ci credeva. Quella casa con un segreto da incubo in soffitta, un segreto che avrebbe stroncato le coronarie di un adulto, non poteva essere stata la casa di una nonna. Non con quell’ospite inatteso su in solaio.
Possibile che mamma e papà non avessero visto niente? Eppure avevano visitato l’intera casa, il garage e, per finire, il terreno che girava intorno alla casa.
Si ammantò di coraggio come farebbe un viandante con un mantello per ripararsi dal freddo di gennaio, prima di affrontare l’argomento. – Zio, voglio farti vedere qualcosa…….
Sapeva quanto il suo consanguineo sbavasse alla vista di ciarpame antico e ne approfittò subito.
Cominciò a salire le scale lentamente, pur sapendo di doverlo fare per sapere, per verificare- vieni, zio, c’è tanto materiale di sopra che potrebbe interessarti.
I suoi passi esitanti erano diventati improvvisamente pesanti. Nonostante tutto cominciò a salire seguito dallo zio. Quando furono finalmente in cima, si sentì chiedere – c’è veramente del materiale buono? – e quasi non riuscì ad afferrare di cosa stesse parlando quello spilungone dello zio Gino.
E che materiale! – avrebbe voluto dire, ma non gli parve prudente accennare alle sue paure che avrebbero potuto essere anche delle pure fantasie scaturite da una mente contraria ad accettare quella casa. Girò il pomello e la porta si aprì lentamente, lasciando trapelare qualche spiraglio di luce mattutina che aveva fatto irruzione anche là dentro. Guardò immediatamente verso la sedia a dondolo, fortunatamente era immobile, ebbe il sospetto e il sollievo di essersi sbagliato quella prima volta. Non finì di formulare il pensiero che la testa si girò dalla sua parte e ricomparve lo stesso ghigno di allora.
Si voltò verso lo zio per trovare conferma a tutti quegli avvenimenti più grandi di lui, ma lo zio si stava dirigendo verso una scatola antica di legno intagliato che sembrava interessarlo più d’ogni altra cosa, posta su un tavolino pieno di polvere e oggetti apparentemente inutili.
A quel punto il ghigno della cosa sulla sedia si allargò e comparvero denti come zanne, muoveva labbra esangui ma più che altro sentiva le parole solo nella sua testa. Occhi iniettati di sangue continuavano a muoversi in diverse direzioni, come succede agli strabici, e subito dopo si fissarono su di lui come se gli guardassero attraverso. – Ti farò urlare quando resteremo soli fino a farti saltare gli occhi – e irruppe in una fragorosa risata. Un suono che faceva accapponare la pelle e che rendeva le gambe d’acqua calda.
Fu a quel punto che Marco, con gli occhi fuori delle orbite dal terrore, ritornò sui suoi passi precipitandosi a perdifiato giù dalle scale. Zio Gino lo seguì dopo qualche momento d’esitazione con la sua scatola tra le mani. Spilungone com’era, fece le scale in un baleno.
Marco, cosa ti ha preso?
Niente – rispose, non si era ancora ripreso del tutto e aveva già bisogno di una giustificazione più che plausibile – mi era sembrato un topo, ma credo che si sia rintanato da qualche parte.
Guarda qua – fece l’altro – non avevo mai visto niente di simile. Quella scatola potrebbe valere un paio di milioni se mi rivolgessi alle persone giuste.
E non hai visto ancora il meglio! – urlò una voce nella sua mente – non hai visto l’ospite inatteso al piano di sopra, quello che solo io riesco a vedere, quello che vuole entrare in intimità per farmi urlare dal terrore.
Zio – avrebbe voluto dire se avesse potuto – portami via da qui, ho paura, ma senza alcun potere di far valere la mia voce. Tu sei un adulto e forse per questo non hai visto niente, ho solo un’ultima prova da fare prima di pensare di darmela seriamente a gambe. Far salire di sopra Fabio, quel piagnone.
Ma non gli fu possibile fare quell’altro esperimento, perché qualche giorno dopo, la sua appendicite, che gli aveva già dato qualche problema in passato, gli procurò il peggior attacco della sua vita, mentre dormiva con il fratellino al fianco.
Su svegliò, lamentandosi e contorcendosi dal dolore. Fabio, svegliatosi a sua volta, si mise subito a frignare. La cosa mise subito in allarme i suoi che lo portarono al pronto soccorso. L’intervento fu fatto di notte per impedire un’eventuale peritonite.
Questo scherzo propinatogli dal suo corpo, che come un vigliacco si era lasciato sopraffare dalla malattia, gli costò sette giorni in ospedale. La mamma rimase al suo fianco, mentre il padre e il fratellino andavano a trovarlo ogni sera. Fabio gli era sembrato pallido, ma forse l’ambiente ospedaliero non si confaceva ad un piccolo di tre anni. Zio Gino andò a trovarlo, portandogli dei giornalini per passare il tempo.
Quando sette giorni dopo uscì, si sentiva ancora indebolito. I punti tiravano un poco e l’appetito era scomparso. Entrò in casa come per la prima volta, guardandosi intorno e socchiudendo gli occhi come per un terribile mal di testa.
Il papà e Fabio erano andati a fare la spesa.
Cerca di non stancarti – gli aveva raccomandato la mamma – mentre io metto qualcosa sul fuoco e poi faccio una doccia, non ne posso più di puzza d’ospedale.
Era rimasto finalmente solo, condizione ideale per quello che aveva in mente di fare. Tenendosi il fianco, con una smorfia sul viso e una paura negli occhi salì lentamente le scale. Quando fu davanti la porta, attese un attimo prima che il cuore calmasse i suoi battiti disperati.
Girò il pomello e spinse. Si aspettava di vedere la sedia a dondolo occupata da quello strano personaggio, la sedia che si muoveva incessante nelle ombre e nel pulviscolo.
Si aspettava di vederlo più mostruoso che mai, ma in fondo neanche lui sapeva bene quali cose terribili lo attendessero.
Invece niente, la sedia era vuota e non più al centro della stanza. Era gettata in un angolo, coperta di polvere. Marco entrò titubante, si chinò con una smorfia per raccogliere dei libri di racconti per ragazzi. Ne scrutò le copertine sbiadite dagli anni.
L’isola del tesoro. Robinson Crosue e Giamburrasca.
Li prese, stringendo i denti.
Si guardò intorno ancora una volta prima di uscire carico di racconti, quindi si chiuse la porta alle spalle per l’ultima volta.
Non aveva più paura dopo un periodo d’inferno.
Voglio dormire con te – piagnucolò il fratellino.
Quella sera, era così felice che lasciò che il piccolo facesse il prepotente ancora una volta.
Si misero a letto dopo aver consumato una cena leggera.
Stai attento a non darmi calci nel sonno – si raccomandò.
La luce fu spenta e un’ora dopo, mentre si preparava a staccare i contatti con quella giornata di rivelazioni, il fratellino si girò sul fianco destro e lo guardò dritto negli occhi.
Che cosa c’è Fabio? – chiese nel dormiveglia, riuscendo a vedere i suoi occhi infuocati anche al buio – Hai sete?
E’ piuttosto una fame atavica – ma in quel momento non riuscì ad ascoltare oltre la voce catarrosa, non dalle labbra del proprio fratello di quasi tre anni.
Finalmente soli – sentì urlare e il ghigno che aveva visto in soffitta si allargò sulla faccia di suo fratello. Due braccia lunghe lo avvilupparono, le labbra si allargarono su denti di smisurata grandezza……..
Cercò di urlare, di dibattersi, ma l’altro lo teneva in una stretta mortale, la morsa cresceva con il passare del tempo. Cercò di emettere dei suoni, le parole gli si erano seccate in gola e sulla faccia del fratellino se ne sovrapponeva una seconda terribile e inumana, sentiva quell’innocente dibattersi in un corpo violato per riceverne uno più grande e antico.
Se aveva sentito di possesso diabolico senza notarlo, adesso sapeva a cosa si riferiva l’esorcista, il film che non gli era stato permesso di vedere neanche in cassetta.
Sapeva che in un colpo solo quella cosa in soffitta stava avendo tutti e due, aveva paura a pensare che poi sarebbe toccato ai suoi e chissà fin dove la scia di sangue si sarebbe spinta.
Cercò di pregare, ma non trovò preghiere adatte. Cercò di chiamare Dio, ma si sentì abbandonato e perso. E prima di formulare ogni altro pensiero coerente, era stato soffocato dal proprio cuscino.
Quando i genitori dalla loro camera sentirono Fabio urlare e accorsero, Marco era già morto.
Una crisi d’asma – aveva detto il dottore.
Non ha mai sofferto – aveva risposto il padre, cercando di bloccare una moglie divenuta isterica con una bambino morto in braccio.
Qualche mese dopo un grosso camion per traslochi lasciava la statale per immettersi nella via secondaria che portava in quella casa.
I genitori erano morti in un incidente, unico superstite il piccolo Fabio. Zio Gino aveva ricevuto l’incarico di allevare il bambino.
I vecchi mobili della soffitta furono dislocati al piano terra. Per accudire al bimbo, era entrato in possesso anche della casa.
Fabio aveva una strana espressione in faccia. Lo zio se n’accorse appena, preso com’era dai suoi vecchi cimeli.
Un sorriso rapace era apparso su quel visetto angelico e non era più scomparso.
Stanotte posso dormire con te? – chiese mentre era intento a giocare con le sue macchinine sparse sul pavimento.
Certo staremo d’incanto – rispose lo zio pieno d’entusiasmo per gli anni a venire.
Il bambino ne era convinto, sarebbe stata una notte indimenticabile.



La storia e non colui che la scrive

E questo cos’è? – chiese alla stanza vuota. Stava rimettendo ordine in una vecchia cassa, quando era saltato fuori quel pezzo di carta ingiallito.
Non aveva mai avuto niente da suo padre, Gaetano Manfrè non era stato capace di dargli gli insegnamenti giusti e le piccole cose che faranno di un bambino un vero uomo. Quel padre effimero come un refolo di vento, quell’immagine scaturita di tanto in tanto dalla sua fantasia, non aveva assolto il suo compito.
Per sua madre non era stato nient’altro che un vagabondo.
Non è facile tirarti su da sola - gli diceva Mira, quando non poteva permettersi di comprargli quelle cose superflue che stanno a cuore a tutti i bambini.
Si erano odiati quei due, eppure come per un gioco del destino se n' erano andati a distanza di cinque mesi l’uno dall’altro.
Di loro rimaneva solo quella cassa scura con maniglie di ferro ai lati.
Si chinò e, proprio mentre lo faceva, suonò il telefono
Era Lidia. Si erano lasciati consensualmente dopo quattro anni di matrimonio, anni sopportabili forse, ma, quando il tuo matrimonio si riduce ad una monotona convivenza, allora è l’ora di salpare le ancore.
Ti stai riprendendo – volle sapere – stai mettendo ordine nella tua vita?
Credo che sia arrivata l’ora di mettere in ordine molte cose – ammise lui – la mia vita finora è stata un continuo fallimento.
Filippo, non dimenticare che ci ho contribuito anch’io – disse lei – esigevo senza dare e……
Finiamola di farci ancora del male – tagliò corto lui – adesso, ho bisogno solo di pensare a sistemare questa casa prima di venderla.
Non hai pensato di tenerla? – s' informò lei.
Non ho dei bei ricordi qui, forse è stato proprio il mio passato a far saltare il nostro matrimonio.
Lei non parlò.
Ci sei ancora? – chiese lui.
Certo sono qui. – nient’altro.
Verrò a trovarti prima di ripartire – ma non credeva che lo avrebbe fatto.
Nuovamente tra gli oggetti polverosi di quella cassa, catapultato nei ricordi.
Ma se c’erano i ricordi, dall’altra parte c’era quel pezzo di carta ingiallito dal tempo che imponeva la sua attenzione.
Si sbriciolava come intonaco vecchio e secco, lo rigirò tra mani sudate e nervose e fu a quel punto che notò le due croci. Un aereo sfrecciò in cielo, facendo tintinnare i vetri delle finestre. Si avvicinò alla scrivania e accese la luce alogena. Una pozza bianca si spalmò sulla carta conferendole, una colorazione più chiara e giovane.
In cima alla pagina, a breve distanza una dall’altra le due croci, una situata precisamente a quattro metri dalla finestra del soggiorno. L’altra si trovava dietro la casa, vicino alla rimessa.
Bisognava scavare e lui aveva un aereo tra meno di tre ore.
E’ mai riuscito un essere umano a fermarsi di fronte al potere coercitivo di una mappa e alle sue misteriose indicazioni in codice?
Mai.
Adesso l’unica cosa che contava davvero, quella capace di focalizzare le sue paure e dargli un volto era la capacità di venirne fuori. Erano anni che lavorava con le parole, grazie alle quali si poteva permettere di viaggiare in prima classe in aereo e comprarsi uno degli ultimi modelli di automobile. Ma la fantasia a volte ha il brutto vizio di anticipare gli eventi peggiori, si insinua a fondo, riducendo le difese al minimo, facendoti pensare che quei mostri esistono davvero. Fantasticare che sotto il letto ci siano dei tentacoli appartenenti a qualche mostro preistorico sembra quasi ridicolo, cominci a smettere di ridere quando ti chini per appurare che non ci sia davvero niente del genere là sotto.
Voleva davvero prestare attenzione a quel foglio di carta o bastava solo strapparlo in pezzi?
Aveva già la risposta.
Cominciò a misurare la stanza, segnò la mattonella con un gessetto. Adesso non c’era che da scalzarla. Su quel pavimento aveva fatto i primi passi qualcosa come quarant’anni prima. Lì sotto trovò una chiave.
La mise in tasca, quasi senza guardarla. Adesso doveva procedere. Si apprestò a sobbarcarsi uno sforzo fisico non indifferente. Troppe birre, panini presi al volo e poca attività fisica avevano prodotto quella pancetta e quel culo cascante che erano solo l’inizio di un deterioramento che sarebbe andato avanti con gli anni.
Uscì, avviandosi a passi lenti verso la rimessa, tracciò il punto dove avrebbe dovuto scavare. Guardò l’ora al suo Rolex, era già in ritardo, l’aereo doveva già essere in pista pronto a lasciarlo a Niali con il suo carico di problemi.
Prese il piccone scovato nello sgabuzzino e qualcosa attirò la sua attenzione. Nella casa di fronte qualcuno lo stava spiando, all’improvviso le tendine appena scostate erano state lasciate ricadere. Non aveva voglia di soffermarsi a pensare, la sua era diventata una febbre. Quella cassa aveva fatto ciò che sua madre e la moglie non avevano saputo fare.
Trattenerlo.
Aveva appena alzato il piccone sopra la testa quando una voce alle spalle lo fece voltare.
Che cosa stai cercando? – un bambino sui cinque anni vispo e con corti capelli neri lo stava osservando. Doveva essere il piccolo dei Leto – La mamma dice che tu sei quello che ha scritto i libri che abbiamo nell’ultimo ripiano della libreria.
Se è questo quello che dice, sarà pur vero – improvvisamente non si sentiva più in condizioni di scavare.
La mamma dice che la donna che abitava questa casa era stramba – lui lo guardò e sentì che quel bambino cominciava a stargli sui nervi – mia….
Puoi farmi cosa gradita? – chiese già sicuro di un mal di testa imminente.
Certo – disse il bambino.
Togliti dai piedi, marmocchio. – Il ragazzino lo guardò torvo, i suoi occhi neri erano diventati all’improvviso tempestosi, infine gli voltò le spalle.
Sentì i passi del piccolo rompiscatole risuonare nel cortile e poi le sentì nella sua mente quando il piccolo salì precipitosamente le scale, se lo immaginò come un piccolo tornado entrare in casa. – Sai, mamma – avrebbe detto – quell’uomo là fuori è matto.
Sentiva quasi quella voce squillante lì nella testa dove elaborava i dati e poi li archiviava.
In uno dei suoi racconti lo avrebbe cancellato come per un colpo di spugna. Invece, aveva solo un terribile mal di testa, mentre il cuore gli batteva nelle tempie come un martello senza rinculo.
Dopo pochi minuti, aveva tirato su solo una manciata di terra, uscì qualcun altro da quella stessa casa. Stavolta era il padre, un uomo sui trentacinque, basso di statura e quasi completamente calvo. Gli si avvicinò quasi silenzioso quanto il figlio.
Vedo che la casa è in vendita – rilevò cogliendolo alla sprovvista, quindi era la casa che volevano.
Non ancora – disse stufo delle continue interruzioni.
Ma ho visto tanto di cartello appeso - protestò l’altro, indicando la parete su cui il cartello era affisso.
Filippo si portò le mani ai reni stiracchiandosi, si avvicinò al muro e strappò letteralmente il cartello – adesso non è più in vendita – concluse.
Sa che lei è un bel tipo? – disse il tale un po’ di malumore adesso.
Non si sentiva di dargli delle spiegazioni, non avrebbe più venduto la casa e tanto bastava. Non c’era una legge che lo obbligasse!
Leto prese la stessa via del figlio.
E un’altra cosa – Leto si voltò, sentendo la voce di Filippo - dica a sua moglie di finirla con quel giochino della tenda. E’ puerile.
Che cosa crede di trovare su quel terreno? – replicò invece – se ne raccontano tante al bar di Pippo su suo padre e su tutta la sua fottuta famiglia.
Filippo rialzò la schiena dalla vanga – possibile che non possa restarmene in pace! – si disse.
Fu a quel punto che fece qualcosa che mai avrebbe creduto di poter fare. Si gettò la vanga alle spalle e fece alcuni passi per raggiungerlo, le mani gli prudevano dalla voglia di sferrargli un cazzotto al mento. Lo fece, ma lo mancò colpendolo invece al collo.
Si chinò a guardare i danni, la donna alla finestra lasciò stare la tendina e si affacciò apertamente.
Lei è un energumeno – lo apostrofò – la casa era già nostra, sua madre aveva già dato la sua parola.
Chi la matta? – fece lui in vena ormai di piantare più di una grana.
La donna lo guardò quasi orripilata. Il marito stava indietreggiando sulle natiche, convinto che l’altro non avesse esaurito la sua bellicosità.
La casa era già nostra – gli urlò continuando ad indietreggiare – siamo stati noi a portarla in ospedale mentre lei se ne stava da qualche parte a menarselo….
Non rispose a quelle insinuazioni, si chinò invece a prendere il piccone, dopodiché quei due si dileguarono come fumo nero. Continuò la sua opera di scavo, consapevole di essere osservato. Scavò in profondità e spalò con la vanga, ma non c’era niente, solo terra scura e umida. Scavò ancora, le vesciche già sulle mani, quelli non erano i suoi normali strumenti di lavoro. Stava già perdendo le speranze, quando il piccone toccò qualcosa e si fermò. Una scatola rettangolare non più grande di una confezione di sardine riluceva ora nelle sue mani nei punti dove non era sporca di terra. Una strana sensazione si era impadronita di lui mentre scavava e adesso il fuoco dell’avventura era divampato come olio sulla brace.
Entrò in casa dove si sedette sul vecchio divano di stoffa a scacchi. Era sfinito. La stanchezza era superata solo dalla curiosità.
Aprì il secondo pezzo del rompicapo e la sua sorpresa fu tale da farlo rimanere con la bocca spalancata.
Non rimaneva che fare dei collegamenti.
Guardò la vanga e il piccone, osservò stralunato le sue mani scorticate e ormai gocciolanti di pus, ma la febbre di andare avanti era aumentata. Con tutti i suoi incubi e deliri.
Portò il suo arsenale fuori, vedeva le macchine là sulla strada avanzare velocemente verso mete misteriose, verso gli improrogabili impegni dei loro proprietari e si sentì staccato da tutto come se stesse vivendo in un proprio pianeta interiore, non più sicuro di niente, ma con la ferrea volontà di compiere la sua missione.
Si era aspettato di dover scavare per ore con la schiena a pezzi invogliato a lasciar perdere, dopo aver visto le sue mani ricoperte da un’altra serie di bolle sul punto di esplodere, ma ….
I vicini di casa, intanto, continuavano a spiare.
Si rifugiò in casa, accese le luci e si lasciò sprofondare nuovamente nel divano. Le mani mandavano grida di protesta per essere state trattate senza riguardi. Ma era finita. Grazie a Dio era finita.
Si preparò a collegare gli elementi che aveva davanti.
Una chiave.
Un anello appartenuto a sua madre.
L’ultima volta che aveva visto quell’anello era stato al dito di sua madre, quando era stata calata nella terra. Ora si chiedeva, perché si trovasse in quella scatola sepolta nel suo giardino?
E che dire poi della chiave?
Si disse che poteva provare con la porta della cantina e quella del solaio. Lo fece come se una mano invisibile lo guidasse. Ma la porta del solaio era aperta, notò solo ragnatele e disordine.
Scese in cantina quasi trafelato. Ormai il sudore gli impediva quasi di vedere. Aprì e stavolta vide il suo contenuto.
Sua madre seduta con la faccia rivolta alla finestra. Si sentì scollegato da ogni cosa.
Aveva sempre sperato di poter scrivere una storia sconvolgente, adesso gli si presentava l’occasione, solo che scrivere quella storia sarebbe stato mostruoso.
Lentamente salì di sopra e compose un numero al telefono. Un quarto d’ora dopo una macchina della polizia invadeva con le sue luci il vialetto della casa, ne scendeva un uomo corpulento, quindi entrò.
Ciao – gli disse e si abbracciarono. – Scendi di sotto con me.
Il poliziotto lo seguì e rimase sconcertato di quello che stava vedendo, le mani sulla bocca – Come è arrivata qui?
Credo di essere stato io. Se andrai al cimitero, troverai una tomba vuota. Non ricordo cosa ho fatto ancora…. – poi la sua voce si spezzò, perdendosi in un lamento.
Quelle furono le sue ultime parole.
Furono fatte delle indagini nel modo più discreto possibile dal suo amico e commissario Farina.
Il corpo di Mira era stato tirato fuori del cimitero un paio di settimane prima. Gli oggetti di valore ritrovati in cantina erano stati portati via ad altri defunti. Filippo era ormai completamente andato.
La sua storia era stata scritta, ma con inchiostro rosso.



Il contenitore

Togliti dai piedi, stupido quattrocchi! Hai visto cosa hai combinato? – inavvertitamente aveva urtato un ragazzo dell’altra seconda, forse il peggiore che sia mai esistito sulla faccia della terra.
Uno di quei tipi che se la prendono, anche se tu respiri un po’ più forte a causa di un raffreddore.
Esclamazioni del genere non erano nuove alle sue orecchie. Aveva sempre avuto problemi con gli occhi ma non per questo doveva essere il bersaglio per ogni bullo di passaggio.
Si era allontanato quasi correndo con la cartella che gli sbatteva su un fianco.
Il capannello di ragazzi che lo aveva apostrofato da vero impiastro, erano i quattro prepotenti della scuola. Lo prendevano puntualmente di mira, anche quando Teodoro faceva di tutto per rendersi invisibile. – Un giorno o l’altro, dobbiamo dare una lezione a questo deficiente – continuarono a dire, come se non fosse già abbastanza umiliante guardare da ogni parte giorno per giorno per evitare di incontrarli.
Li odiava in silenziosa attesa.
Correndo, guardò verso l’alto e le prime monetine di pioggia gli bagnarono il viso. Il cielo d'ottobre era di un grigio acciaio e se quello era l’inizio dell’anno scolastico si figurava come potesse essere la fine. Dopo un po’ la pioggerella divenne un acquazzone, cinque minuti dopo era già inzuppato fradicio.
Prese la strada che costeggiava la scuola, guardandosi spesso alle spalle, come un ricercato dalla polizia, ma sembrava che si fossero eclissati tutti come spaventati dal temporale.
Era una maledetta sensazione quella di sentirsi un perdente agli occhi degli altri, ma dentro sapere d’avere qualcosa da offrire. Il suo racconto si trovava ben celato nel cassetto della scrivania, ma c’era. Le sue giornate si trascinavano solitarie davanti il computer che gli era stato regalato per il suo compleanno ad aprile, giornate intere a costruire un mondo che esisteva solo nella sua mente.
Dodici anni, occhiali spessi sempre in procinto di scivolargli dal naso, altezza di sotto alla media e anche per questo si era sentito apostrofare come un nanerottolo ed era diventato il punto focale di tutta la classe.
Attento dove metti i piedi – la voce femminile lo destò un poco dalle sue meditazioni. L’auto rallentò, affiancandolo – sali, che ti accompagno a casa.
La sua vicina, una ragazza sui trent’anni, che spesso lo invitava a mangiare un pezzo di torta o guardare insieme qualche vecchio film alla televisione, era una così cara persona che forse era l’unica che avrebbe salvato se fosse arrivata la fine del mondo. Il resto del vicinato, però, la considerava un po’ larga di manica con i ragazzi. Ma Teodoro sapeva che lui non aveva di che preoccuparsi.
Grazie – disse – ma credo che ti bagnerò il sedile.
Il sedile? – fece lei ridendo – forse ti riferisci a qualcuna di quelle macchine che hanno sotto il culo i ricconi.
Il ragazzo rise con lei e gli sembrò strano sentire quel suono, abituato al silenzio dei suoi pensieri. - Cosa ti è successo, ancora discussioni con quei delinquenti? – lui fece di sì con la testa.
Guarda nel vano oggetto – lo invitò – deve esserci qualcosa per te, non ricordo, forse delle caramelle.
Teodoro aprì il cassetto, la guardò, come per avere un ulteriore invito a prendere fra le mani il pacchettino in lucida carta azzurra e legato da un nastro dorato.
Cosa stai aspettando. Prendilo – lo esortò – è per te. – Poi ritornò con gli occhi sulla strada ormai resa scivolosa dalla pioggia e pericolosa come un’ asse cosparsa di sapone.
Il ragazzino un po’ intimidito afferrò il pacchetto e ne sentì il peso nelle mani, la sensazione levigata della carta sotto le dita, lo scartò, a questo punto curioso come una scimmia.
Oh, Anna non, è possibile – nella scatola c’era una targhetta in argento, ma quello che colpì il ragazzo fu la dedica – allora ti è piaciuto? – chiese pieno di speranza.
Al mio scrittore in erba – c’era scritto sopra. Sotto la targhetta con la dedica un foglio di carta ripiegato con un indirizzo. Il luogo dove poter inviare il racconto che teneva in camera sua.
Intanto, erano giunti sotto casa, la pioggia aveva cessato il suo impeto e nel cielo si andava formando un arcobaleno stinto. Il ragazzo le diede un bacio frettoloso, prima di scendere dall’auto, quindi avvampò in viso come se fosse stato schiaffeggiato. Percorse, correndo, il vialetto di casa, aprì la porta e stava per entrare quando le fece un cenno di saluto, Anna alzò la mano, prima di parcheggiare nel vialetto di casa sua, la prima da sinistra venendo da Milazzo.
Ti ammalerai con quei vestiti addosso – la madre del ragazzo era sempre lì a puntualizzare l’evidenza.
Teo andò in camera sua, mentre lei preparava il pranzo canticchiando sottovoce, ripose in fondo al cassetto dedica e indirizzo, si tolse velocemente felpa e jeans bagnati e li gettò nel cesto della biancheria sporca che era in corridoio. Ripensò che l’indomani doveva riaffrontare quei piccoli bastardi e ne ebbe paura perché si rendeva conto che era solo.
Pianse un poco prima di andare a pranzo.
Dopo pranzo il tempo era migliorato – vado a fare una passeggiata – disse alla madre.
Quando vai al supermercato, compra due buste di latte – lo pregò lei.
Il ragazzo incassò i soldi che lei aveva tirato fuori da un borsellino di plastica tutto screpolato.
I suoi passi risuonavano sul marciapiede dentro le scarpe da tennis, le mani affondate nelle tasche se n’andava bel bello verso qualcuna delle sue mete preferite.
Di tanto in tanto, quando si sentiva triste, percorreva quel tratto erboso e questa giornata è la quintessenza della tristezza, ci sta grufolando dentro come un maiale, costretto a farlo chiuso dentro il suo recinto. Capisce che ci sta annegando dentro e anche se ha dodici anni sa che non è naturale sentirsi in quelle condizioni da adulto.
C’era uno spiazzo erboso che costeggiava la sua casa fino ad un canneto, dove spesso si rifugiava per vedere qualche gabbiano che spiccava il volo.Una volta, nascosto dalle canne, aveva visto una coppietta fare le sue porcherie. Quel giorno, era rientrato a casa prima del previsto. Da allora percorreva quel tratto quasi in punta di piedi.
Suo padre era l’unica persona che si sforzava di capirlo, anche se nel suo modo distratto.
Era stato il solo insieme ad Anna ad aver letto il suo racconto, sua madre non si era degnata nemmeno di darci un’occhiata. Suo padre lavorava per la centrale elettrica, aveva sempre parecchio da fare e quando era libero preferiva dedicare il suo tempo al fucile, con quegli incapaci dei suoi amici cacciatori. Forse era solo un modo per andarsene fuori di casa, lontano dalla moglie.
Si sedette su un masso vicino al canneto, vide un gatto grigio arruffare il pelo e digrignare i denti e subito dopo mettersi a correre come se inseguito da qualcosa d'enorme. Sentiva che c’era troppo silenzio, lo poteva perfino toccare, nemmeno un gabbiano in giro e il gatto si era già eclissato.
Rimase seduto per un po’ a riflettere su niente in particolare, poi tirò fuori un giornalino tutto spiegazzato e ingiallito per le troppe volte che se l’era portato addosso e aveva cominciato a leggerlo.
Lo fece, come farebbe chiunque con un buon libro, seduto nella poltrona più comoda del suo salotto, in una serata di pioggia insistente che picchia sui vetri, quando niente è più gratificante che quel caldo.
Rifletté per un attimo e si rese conto che non c’era neanche un alito di vento. Strano anche il fatto che non ci fosse nemmeno un passero a far sentire la sua vocetta querula, né un insetto di fine estate che gli ronzasse nelle orecchie. Ora si chiedeva, riponendo il giornalino nella tasca se non c’era qualcosa di strano che lui non riusciva a vedere.
Anche se non era un male che le zanzare fossero sparite e che quel gattaccio randagio se ne fosse andato prima di strofinargli addosso il suo mantello pieno di pulci e lappe.
Stava quasi per alzarsi con l’intenzione di andarsene perché non voleva rimanere in quel luogo, quando cominciava a fare buio, quando i suoi occhi intercettarono qualcosa.
Si avviò lentamente, calpestando l’erba umida che dopo il suo passaggio rimase piegata come una devota in chiesa. Quest'oggetto era in metallo senza nessun' etichetta.
Non era vuoto come aveva pensato, era ancora sigillato…
Non sapeva se chinarsi a prenderlo o lasciare che rimanesse lì per altri dieci anni, era la prima volta che gli capitava di sentirsi nervoso in quel luogo. Dopo qualche ripensamento si decise a guardarlo più da vicino.
Dopotutto cosa poteva capitargli?
Sulla sua superficie, perfettamente liscia, solo un cerchietto rosso.
A quel punto non sapeva più che fare, se lasciarlo alle erbacce e alle larve degli insetti o portarlo a casa dove……. Non si spingeva oltre con l’immaginazione, aveva paura che gli venisse meno il coraggio, perché in realtà aveva già deciso. Nel momento in cui aveva soppesato quell’oggetto, quando aveva sentito le sue dita tremare e il cuore battergli più forte nel petto, aveva visto con gli occhi della mente quel barattolo sulla prima mensola, sopra il lettino in camera sua.
Stava salendo di corsa le scale, non voleva farsi vedere con quell’oggetto in mano, quando come previsto la voce di sua madre lo richiamò dal fondo delle scale – Che fine ha fatto il latte? E i miei soldi? – la sua voce era irritata come sempre, sembrava che fossero tutti pronti a fregarla.
Ho dimenticato di comprarlo – rispose di rimando, appoggiando il barattolo sull’ultimo gradino, dopodiché scese velocemente le scale, per evitare che salisse lei – qua ci sono le diecimila lire che mi avevi dato.
Elvira lo guardò dritto negli occhi, le mani appoggiate sui fianchi in segno di sfida, voleva forgiare il suo ragazzo all’ubbidienza e non sempre ci riusciva – vorrei sapere da te cosa cavolo ti passa per la mente – disse. Il ragazzo non rispose, non vedeva l’ora di salire in camera sua, a stabilire cosa c’era in quel barattolo e se valeva la pena di aprirlo. – Sali e mettiti a studiare – gli ordinò, congedandolo.
Lui salì lentamente le scale, entrò in camera e si chiuse la porta alle spalle. Il viso magro sotto gli occhiali dalla lente crepata gli conferiva un aspetto strano.
Stava riponendo il barattolo su una delle mensole poste sul lettino, quando ci ripensò, lo afferrò con le mani completamente sudate, aprì l’ultimo cassetto della scrivania e lo ficcò dentro.
Si gettò sul letto con tutte le scarpe, altra cattiva abitudine, le mani appoggiate dietro la testa a fissare il soffitto, aveva anche da studiare ma non riusciva a concentrarsi come doveva.
E Teo? – era la voce di suo padre rientrato dal lavoro, tra breve avrebbe aperto il frigo, tirato fuori una lattina di birra, successivamente sarebbe sprofondato nel divano in soggiorno a guardare le ultime notizie al telegiornale.
E’ in camera sua, quel ragazzo mi dà da pensare – la voce della madre era severa come sempre, così prevedibile nel suo tono da martire. La vedeva con gli occhi della mente rassettare quello che lui e il padre mettevano fuori posto. La sua mania della pulizia era uno degli altri sintomi della depressione, sua madre non era felice e secondo lui non lo era mai stata. La vedeva col suo grembiule bianco sempre immacolato, con le scarpe basse e nere girare per casa come in cerca di cose da fare. Sentiva nella sua mente di ragazzo che la ricerca che lei aveva di mettere tutto sottosopra per togliere anche il più minuscolo granello di polvere, era la ricerca inconscia di una vita nuova.
Quella vita monotona, con un marito che forse non aveva mai amato e un figlio che forse avrebbe voluto diverso, era diventata la sua spina nel fianco.
Esci anche stasera? – la domanda era retorica anche se lei esigeva una risposta tanto per piantare qualche grana.
Certo, hai bisogno di qualcosa?
Sì, un altro marito. – la sua voce saliva al piano di sopra senza per questo perdere il tono tagliente del diamante. Il ragazzo avrebbe voluto non sentire quelle conversazioni. Ma come evitarlo se la sua camera era la prima in cima alle scale e loro non facevano niente per evitarlo.
Vattelo a cercare altrove, così potrò liberarmi di te una buona volta – immaginava la faccia di lei, dopo quelle parole, diventare sprezzante. Il solco di rughe in mezzo alla fronte quando diventava silenziosa alla ricerca di una risposta da dare.
Ci fu silenzio per un momento ancora, la tensione saliva al piano di sopra con un' intensità quasi palpabile in tutta la sua drammaticità.
Pensi di vivere meglio senza di me? – finalmente aveva trovato qualcosa da ribattere – una serva, ecco cosa sono diventata, la tua serva e la serva di tuo figlio.
Ora ricominci, quando le cose vanno male Teo diventa mio figlio. Credi sia stato facile per me sopportare quella tua faccia avvizzita, i tuoi modi taglienti e il cibo scondito lasciato in tavola mentre tu continui a girare per casa come se tutto il mondo girasse grazie a te e ti gravasse tutto sulle spalle!
Brutto ingrato…….. – ora lei doveva essersi allontanata verso la cucina perché Teodoro non la sentiva più, sentiva invece l’audio del televisore salire di tono, doveva essere il padre che finalmente la cancellava dalle sue orecchie.
Santo cielo – si disse – cercano di azzannarsi!
Rimase così per un poco ad ascoltare il televisore blaterare dopo le parole a vanvera dei suoi.
Un senso di gelo stava cercando di impadronirsi di lui e fu in quel momento che ripensò al barattolo che aveva trovato poco tempo prima e che adesso si trovava in fondo a un cassetto, aspettando che lui si decidesse finalmente a prendere una decisione.
Si era alzato dal letto strofinandosi le mani sulle braccia, i peli gli si erano rizzati come per un senso di gelo provocato da una paura insensata, dovuta forse ai suoi che minacciavano di separarsi o la paura dipendeva dalla possibilità di aprire il barattolo e trovarvi qualcosa d'innominabile.
Quella notte dormì poco e male, verso le due si era alzato quasi senza rendersene conto, a piedi scalzi si era avviato verso la scrivania e aveva aperto il primo cassetto in basso, aveva tirato fuori quaderni e penne e finalmente aveva trovato quanto cercava, quel suo strano barattolo che gli era apparso in sogno e lo aveva spinto a svegliarsi. Stava dormendo nel suo letto con la trapunta ben fissata sotto il mento, aveva sentito un rumore strano e si era girato su un fianco, non aveva osato accendere la luce anche perché la luna proiettava il suo chiarore in tutta la stanza e quindi ci vedeva quasi come in pieno giorno, aveva avuto paura a tirar le braccia fuori dalle lenzuola perché ci poteva essere qualcosa pronto ad afferrarlo.
I suoi occhi vagarono nella stanza senza sosta, ma non c’era niente di anormale, tutto in ordine come l’aveva lasciato la sera prima. Ad un tratto aveva sentito il bisogno impellente di svuotare la vescica, si era alzato con una paura addosso che non aveva senso. Come sempre in quelle occasioni si avviò verso il bagno a piedi nudi, il pavimento era freddo e lo fece rabbrividire. Era lì in piedi, davanti alla tazza, pronto a sgravarsi di quel peso al basso ventre quando si rese conto che qualcosa gli era sfuggito nell’esame che aveva fatto alla camera. Dopo aver fatto scorrere l’acqua nella tazza si avvicinò allo specchio che c’era sopra il lavello e vide la faccia di un adulto e non quella di un ragazzino di dodici anni non troppo sviluppato, con l’abitudine di guardare con gli occhi a fessura quando non aveva occhiali. Vide l’uomo che poteva diventare se ne avesse avuto la possibilità, l’uomo prestante e con un certo fascino a cui non aveva mai sperato di assomigliare.
Ritornò verso il calore del letto ma non prima di aver verificato qualcosa d'essenziale.
Il barattolo.
Non era più in fondo ad un cassetto, ma in primo piano sulla mensola della libreria, posto sopra il letto fra un paio di libri di testo scolastico e una pila di vecchi giornalini di topolino. Era il bottino trovato per caso tra le foglie del canneto, tutti in ottimo stato, ben conservati dentro una grossa scatola di cartone. Li aveva portati a casa un giorno che sua madre era uscita.
Trasalì nel vederlo. Era sicuro di non essere stato lui a mettercelo. Allora chi?
Strane paure presero a serpeggiargli addosso, paure che in quel momento non sembravano campate in aria, ma palpabili come malattie latenti.
Pensò alla madre che furtivamente frugava tra le sue cose, ma poi scartò l’idea.
Si mise a letto senza illudersi troppo nella riuscita di un buon sonno, i suoi occhi rimanevano fissi su quell’oggetto di latta, qualcosa che adesso quasi malediceva. Ma non era stato sempre troppo pauroso anche per affrontare quel branco di teppisti con cui andava a scuola?
La notte trascorse e lui dormì profondamente anche se non ci aveva sperato. La mattina lo sorprese riposato e dimentico di ogni cosa. Solo quando cercò di mettersi in piedi lo fece come se fosse stato punto da una vespa, in quel letto e nel calore del suo corpo il barattolo era evidente come un serpente a sonagli con la coda bene in vista scossa dalle vibrazioni.
Non si permise nemmeno di toccarlo, sollevò le lenzuola un paio di volte fino a farlo cadere sotto il letto, dopodiché rassettò lenzuola e coperte come ogni mattina prima di andare a scuola.
Scese sotto già lavato e vestito. Prese l’autobus come ogni mattina. Aveva appena varcato il cancello perso nei suoi pensieri che in altri giorni potevano essere più leggeri, quando delle forti braccia lo afferrarono e lo condussero dietro la scuola. Non ebbe il tempo di dire una sola parola, di riflettere su quanto gli stava capitando, perchè adesso le dita dei suoi persecutori sulle braccia sembravano tenaglie. Fu a quel punto che li vide in faccia.
Quello più alto con corti capelli a spazzola lo spinse così violentemente da farlo atterrare su alcuni ciottoli e fargli strappare i pantaloni. L’altro si limitò a parlargli – domani se non vuoi rimetterci quel muso da topo portaci tutti i tuoi risparmi. Dopo la scuola.
Teo rimase in silenzio, non poteva confessare di non avere alcun risparmio, ritenne più salutare per la sua vita tacere. I teppisti in mancanza di soldi potevano decidere di mandarlo in ospedale.
Ora vattene – era quello con i capelli a spazzola che tutti chiamavano Giorgione – ricordati quanto ci siamo detti e forse i denti ti rimarranno tutti in bocca.
I pantaloni che indossava, troppo lunghi di cavallo, com’era la moda del momento, lo facevano sembrare un detenuto in cortile nell’ora d’aria.
A quel punto lo issarono in piedi e prima di andarsene lo minacciarono ancora – Non venirci a dire che non hai un soldo – disse Giorgione - perché ci accontentiamo anche di qualche braccialetto d’oro o di qualche altro gingillo.
Siamo comprensivi – fece l’altro e scoppiò in una risata sguaiata che avrebbe fatto accapponare la pelle ad un coccodrillo. Il suo compare gli fece da eco.
Teo si allontanò sul suono stridulo di quelle risate e si chiese se era possibile vivere in un mondo dove persone del genere la facevano franca e dove quelli onesti ricevevano puntualmente calci sui denti.
Mentre si allontanava perso nei suoi cupi pensieri gli si affiancò un ragazzo dell’altra seconda, se non ricordava male si chiamava Carmelo – hanno minacciato anche te?
Annuì pieno di vergogna.
Sai cosa può capitarti se non fai quello che dicono? – sembrava che per questo ragazzo le domande non si esaurissero mai. Aveva degli occhietti vispi e un sorriso simpatico.
No, ma posso immaginarmelo – disse rassegnato.
Vedi questo dito? – il ragazzo protese la mano destra – è stata la prima volta che mi sono presentato a mani vuote. Giorgione mi è passato sopra con i suoi stivaletti borchiati.
Te lo hanno steccato? – adesso Teo sembrava incuriosito.
E la cosa peggiore sai qual è? – stavolta Teo attese anche la risposta – che ho dovuto mentire ai miei. Lì per lì con il dolore lancinante che mi strappava il cuore ho dovuto inventare che mi sono spezzato il dito per il grosso sasso che c’era caduto sopra. Senza spifferare che il mio grosso sasso era quel sacco di merda.
Il ragazzo sembrava furioso e Teo non gli dava torto.
Io non ho niente da dargli – ammise...
Ahi, ragazzo mio, sei in grossi guai. E’ meglio che domani non ti fai vedere, ma non potrai eluderli in eterno. Prima o poi… E poi a volte cercano il malcapitato fino a casa e le cose si complicano perché ci vanno di mezzo i fratelli più piccoli o gli animali domestici. Un mio amico che si era rifiutato di stare al loro sporco gioco ha trovato, una mattina, il gatto di casa sul tappeto davanti la porta d’entrata. Pensava che il poveretto dormisse invece stava facendo ben altri sonni con la spina dorsale spezzata.
Adesso ti sei fatto un’idea ti quanto possono essere pericolosi?
Teo se ne rendeva conto. – Certo, ma pensi che non esiste qualcuno in grado di bloccarli?
Qualcuno ci ha provato ma non sto a raccontarti le conseguenze…
E invece racconta – lo esortò – vorrei saperne di più per regolarmi.
Tu ti stai preparando a dire addio a qualcuna delle tue ossa, il mio consiglio è di non fare colpi di testa. Prima o poi ti lasceranno in pace.
Non mi sembra che lasciano in pace te – il ragazzo impallidì. In realtà i lazzi sul suo conto non erano finiti, semplicemente lo apostrofavano in tutti i modi che un essere umano ha per offendere un proprio simile senza arrivare per questo a mettergli le mani addosso. – Sopporti tutto questo?
Non mi piace neanche un po’ ma cerco di conviverci, prova a farti rompere un dito e poi ne riparleremo.
Se dovessero mettermi le mani addosso avranno di che pentirsi – si allontanò su queste parole. L’altro lo guardò come si guarda qualcuno che parte per una guerra e non sa se ritornerà chiuso in una cassa.
Aveva preso la sua decisione, affrontare ogni cosa senza piangere o nascondersi.
Quella sera rimase sveglio fino a tardi a fissare il barattolo che doveva restarsene sotto il letto ma chissà perché era ritornato al suo posto sulla mensola. Si era chinato a cercarlo anche se il cuore gli gridava che era inutile, avrebbe potuto nasconderlo migliaia di volte e quello sarebbe saltato fuori allo stesso modo di una moneta falsa.
Non si era nemmeno spogliato, rimaneva sotto le coperte sapendo che niente al mondo avrebbe potuto riscaldare il gelo che aveva dentro e scioglierlo. Aveva cercato di sfogliare uno dei suoi giornalini ma tanto era inutile, guardò un’ultima volta il barattolo prima di alzarsi.
Sapeva d'essere pronto, di esserlo sempre stato. Aveva tutto il necessario nel cassetto, un semplice antiquato apriscatole mezzo arrugginito. Lo prese con mani tremanti nemmeno avesse la febbre.
Adesso la parte più difficile.
Sentiva suo padre russare nella stanza accanto, sembrava tutto normale, e intanto si erano fatte le due. Si sedette sul letto tenendo in grembo il barattolo e l’apriscatole. Lo sentiva come un peso vivo e ne aveva paura. Ma ripensò al ragazzo col dito spezzato, al denaro che non aveva e che quei brutti ceffi volevano, pensò a tante altre cose ancora prima di decidersi ad aprire un contenitore che avrebbe potuto contenere qualunque cosa.
Valeva la pena di appurarlo? Si rispose di sì.
Si avviò verso la scrivania con l’intenzione di farla finita.
Tenne ben stretto il barattolo con la sinistra mentre con la destra azionava l’apriscatole.
Pensò che poteva essere una cattiva idea aprire qualcosa di cui non conosci il contenuto, ma fece tacere subito quella voce petulante, la zittì come si fa con una mosca che ti ronza vicino all’orecchio e cerca di farti ammattire.
Solo marginalmente si rendeva conto che ormai era fatta e che non si poteva più tornare indietro.
La mattina dopo scese alle sette a fare colazione, sua madre era ai fornelli come sempre, stava riscaldando il latte – stanotte ti ho sentito rigirare nel letto per parecchio tempo – disse.
Questa mattina c’è il compito di italiano e mi sento nervoso – mentì.
Cosa ti prende? Non sei il nuovo Leopardi? Almeno è quanto afferma tuo padre dopo aver letto quello che scrivi.
Mamma non leggi mai niente di quello che scrivo – non sapeva da dove gli venisse quel coraggio – almeno papà si sforza di capirci qualcosa.
Lei rimase immobile come una statua mentre il latte si versava fuori del bollitore finendo sui fornelli e imbrattandoli. Gli portò quello che era rimasto – sbrigati - disse - prima che ti mandi fuori di casa senza colazione.
Lui sembrò cambiare discorso – papà è già uscito per andare al lavoro? – e intanto sorrideva.Un sorriso strano che lei non riuscì a decifrare. – E’ una fortuna non trovarsi in questa casa stamani.
Sei matto come tuo padre! – e intanto la sua voce aveva perso parte dello smalto.
Lo guardò come se lo vedesse solo adesso, ritornò ai fornelli e cominciò a strofinarli con impeto –
questa mattina ti sei alzato col piede sbagliato – lo informò – attento che a tirare la corda si può spezzare.
Si è già spezzata – disse e non era da lui tenere testa a sua madre. La guardò e capì che lei adesso aveva paura.
Si avvicinò al televisore nell’altra stanza, già acceso da almeno un’ora, alzò il volume e rimase in ascolto come nell' attesa di qualcosa. Anche sua madre si era affacciata con la spugnetta ancora insaponata in mano – ma cosa aspetti? Farai tardi a scuola.
Lui si limitò a guardarla senza rispondere e intanto si stava sedendo sulla poltrona di suo padre – perderai l’autobus – disse lei senza convinzione.
Ho gia perso quell'autobus – fece lui – ma non lo hanno perso gli altri…
Non lo capiva, non capiva più quel suo ragazzo.
Se ne ritornò in cucina dove rimase fino a quando sentì le ambulanze ululare in strada – cos’è stato?
– chiese – sembra la fine del mondo, tutte quelle ambulanze, deve essere successo qualcosa di veramente grave.
Il ragazzo non rispose, ma la seguì fuori dove videro che tanti altri stavano accorrendo verso la strada principale. – Mio Dio cosa sarà successo? Mia figlia è appena partita con l’autobus e per tanti dei nostri vicini è la stessa cosa. – stava dicendo una loro vicina col viso paonazzo.
A Rosanna non è successo niente – disse il ragazzo e intanto il suo sguardo era rivolto alla strada.
Come fai a saperlo? – chiese la donna più agitata che mai. Teo si limitò ad alzare le spalle.
Posso chiamarla sul cellulare? – chiese ad Elvira e la sua era quasi una preghiera.
Le fece strada, l’altra compose il numero e rimase in attesa torturando il filo del telefono, il ragazzo le sembrò troppo tranquillo, la madre piuttosto sembrava una persona cui è arrivata la notizia che è morto qualche congiunto.
Maledizione non è raggiungibile – disse dopo un poco.
Lo dia a me e vedrà che Rosanna sta bene. - Compose il numero e passò la cornetta alla signora - provi adesso. – Nei suoi occhi non c’era lo sguardo di un ragazzo ma due pozzi neri.
Grazie al cielo ma cos’è tutto questo frastuono? – il suo viso era diventato bianco come carta – ma tu stai bene? Tra pochi minuti sarò lì, certo, stai tranquilla.
C’è stato un terribile incidente – spiegò dopo aver posato la cornetta – Rosanna sta bene ma finora si contano quattro morti. L’autobus è finito in un burrone per evitare un uomo che stava attraversando la strada, a dire di tutti è sbucato fuori del nulla.
Mio Dio – la madre di Teo aveva le mani tra i capelli senza lasciare la spugna insaponata – per fortuna sei rimasto a casa! O poveri noi - e in uno slancio che non aveva mai avuto lo abbracciò fin quasi a soffocarlo.
Quando finalmente si decise a lasciarlo andare la signora Lella si era già allontanata, dopo un po’ si era messa a correre.
Rientrarono in casa insieme e quando il rumore di passi al piano di sopra divenne insistente anche Elvira lo sentì, alzò gli occhi al cielo come per chiedersi se qualche ladruncolo si fosse intrufolato in casa per derubarli. Dopo un poco i passi cessarono ma il ragazzo si avviò verso le scale con l’intenzione di salire in camera sua.
Stai attento – fu la raccomandazione della madre – sembra che in questo paese stia succedendo di tutto.
Salì lentamente le scale, quando fu in cima la guardò per un lungo momento, quindi esclamò – non c'è niente di cui aver paura. – quindi scomparve come fumo nero.
Entrando in camera lo vide, era sulla mensola, fece qualche passo e lo prese in mano.
Era vuoto.
Lo era sempre stato?
Ricordava solo di averlo aperto, era sicuro che aprendo il cassetto della scrivania vi avrebbe trovato l’apriscatole, ma non ricordava altro.
Se davvero aveva aperto una porta che prima era chiusa, in nome di Dio, cosa aveva liberato?
Non ebbe tempo a porsi altri quesiti che la voce d'Elvira lo chiamò dal pianterreno – scendi subito, stanno parlando dell’incidente.
Fece a due a due le scale tanto da farla trasalire.
Guarda, la televisione di Niali è già sul posto – il ragazzo stava vedendo più di quanto avrebbe voluto. – E’ terribile stanno trasportando fuori dell’autobus i ragazzi. Non sembrano nemmeno malridotti al punto da essere morti. Penso che poteva toccare a te e sto male, mi viene da vomitare – e corse verso il bagno dove rimase per il resto del servizio.
Tre dei ragazzi morti sono già stati recuperati – stava dicendo la giornalista locale scioccata a sua volta non meno degli altri – solo uno dei ragazzi è rimasto incastrato tra i sedili e il vetro, la sua testa è stata recuperata, troncata di netto dall’urto. Il conducente dell’autobus non si spiega che fine abbiano fatto le tracce dell’uomo che gli ha attraversato la strada. Sono molti a testimoniare, quel tipo è sbucato dal nulla e poi si è dileguato.
L’autista si teneva sulla fronte una compressa di garza e aveva gli occhi arrossati dal pianto – non mi era mai successo una cosa del genere, sfido chiunque ad evitare un matto che si mette di proposito sotto le ruote – il pianto che fino a quel momento era solo nella voce si rese manifesto e le sue parole diventarono incomprensibili.
Si presume che per liberare l’ultimo ragazzo vittima dell’incidente – riprese l’inviata - ci vogliono ancora un paio d’ore, il ragazzo conosciuto da tutti nell’ambiente scolastico come Giorgione lascia una madre disperata e un fratello più piccolo, il padre gli era venuto a mancare quando aveva solo tre anni. Con questo chiudo l'edizione speciale del nostro telegiornale, gli aggiornamenti vi verranno forniti nel corso della giornata, non appena ci saranno degli sviluppi nella vicenda che ha scosso il paese come per la morte dei coniugi Foti o per altre tragedie che non sono rare a Niali. La tragedia di questa mattina avrebbe potuto sfiorare altre cifre ma anche così il paese proclamerà il lutto cittadino, è il meno che si possa fare in questi frangenti. Arrivederci a presto dalla vostra Mirella Filoramo.
Quando Elvira ritornò in soggiorno, il ragazzo aveva già spento il televisore e se ne rimaneva al centro della stanza attonito come in ascolto di una voce che sentiva solo lui.
Mi chiedo come facevi a sapere quello che sarebbe successo stamattina? – si aspettava quella domanda e anche le giuste conseguenze.
Nuovamente passi al piano di sopra.
Questa volta i passi non si fermarono.
Lo sbattere di una porta fece trasalire Elvira, il ragazzo non si mosse. - Cos’è stato? – chiese lei –
cos’è stato per l’amor del cielo? – si mise a urlare.
Il figlio sembrava pietrificato al centro della stanza e quando qualcuno scese le scale, qualcuno i cui passi erano lenti e strascicati, qualcuno che la fece urlare quando si manifestò per quello che era, il ragazzo non mosse un dito.
Qualcosa stava scendendo le scale, un qualcosa che non aveva niente d'umano, la faccia e il corpo della cosa erano in continua evoluzione come il bozzetto di un disegno che si evolve sotto i propri occhi. Elvira gridò una prima volta, lo fece una seconda quando si rese conto che l’essere non era provvisto di mani ma di chele. Gli occhi erano due macchie scure in un abbozzo di faccia.
E con orrore si accorse che stava andando verso di lei, cercò di fuggire, almeno ci provò ma era come ipnotizzata. Le urla erano cessate, non erano più necessarie perché lo strano essere stava chiudendo le chele intorno al suo collo, fu un momento e quello dopo lei se ne restava accasciata ai piedi del divano. Il ragazzo frattanto stava uscendo dalla scena non prima di aver avuto un lampo di razionalità in una situazione paradossale come quella.
A che cosa ho permesso di venir fuori? – disse apatico, dopodiché aprì la porta e fu in strada.
Il suo itinerario prevedeva parecchie soste.




CLASSIFICATA AL TERZO POSTO "PREMIO DUOMO" CON IL RACCONTO "LO GNOMO"
(Orvieto, martedì 5 dicembre 2006)

MOTIVAZIONE DEL PREMIO.

Uno gnomo (così detto perché piccolo e malformato) prepara una trappola per due malviventi che lo avevano malmenato e derubato. Li vince ricorrendo a molta astuzia. Il racconto sottolinea l'inaudito comportamento del "più forte" nei confronti del "più debole" e la possibilità che l'intelligenza e l'astuzia unite insieme possano vincere questa situazione precaria e inconcepibile ancora profondamente radicata nella società.

Lo gnomo

Non era lontano il tempo in cui lo chiamavano così, ma non ci si dimentica mai delle offese subite, l’amarezza è un calice amaro che lascia in bocca il gusto del salato, che ti trascini dietro come una gallina morta appesa al collo.
Lo chiamavano così perché era basso.
Gnomo! – Lo apostrofavano per la strada, facendo aumentare il suo livore. E in quei giorni, dove il nulla predominava su ogni cosa, di livore ne aveva da vendere. Come un mercante di morte era pronto ad ogni evenienza, e raggiungere così il suo obiettivo.
Da giorni aveva in mente di vendicarsi. Farlo con un’arma o semplicemente a mani nude, non avrebbe fatto la benché minima differenza.
Quand’era nato, i suoi genitori lo avevano accolto con gioia, anche se fin dall’inizio era apparso a tutti per quello che era, un bambino diverso. Poteva stare tutto in una mano, a quel tempo, e con gli anni le cose non erano cambiate. Era piccolo, troppo minuscolo per essere un bambino, sembrava quasi un elfo in una favola. Ma la sua vita non era una fiaba, era anzi un incubo spaventoso.
Quand’era rimasto solo, dopo la morte dei suoi, le cose erano peggiorate, anche una gallina avrebbe potuto fargli del male, mentre le pecore avrebbero potuto schiacciarlo, se solo non fossero state così stupide. Il loro cane aveva imparato a dormire sul suo lettino senza molestarlo, tanto di posto ce n’era per due.
Quando scovò in soffitta il libro e il medaglione tutto cambiò.
Legioni – c’era scritto sul medaglione a lettere rosse. E riscoprì la stessa inquietante parola leggendo il libro.
Legioni. – Pensò. – Una legione è un esercito.
Ma andiamo per ordine.
A trent’anni pesava trentacinque chili ed era alto centoventi centimetri.
Ma la mente, a dispetto di tutto, era quella di un uomo normale, forse le sue intuizioni erano perfino geniali.
La prima volta che si mise all’opera fu semplicemente con un ramo secco, tracciando linee sul terreno, e fu così che scoprì di avere quel talento nascosto, riservato a pochi eletti. Aveva disegnato una pecora del suo gregge, accorgendosi che era quasi migliore dell’originale. Ma chissà perché aveva disegnato un animale che misurava quanto un vitello, in quel momento aveva dimenticato di essere un nano.
In seguito scoprì che disegnare oggetti così grandi lo faceva sentire al disopra dei suoi centoventi centimetri, se ne dimenticava perfino.
Andare in città era diventata un’impresa ardua perché non facevano che scrutarlo appena girava lo sguardo, e c’era chi lo fissava apertamente, schernendolo, come se fosse colpa sua avere quel corpo informe.
Non era stato semplice trascinarsi dietro quattro tele e tutto l’occorrente per imbrattarle.
Aveva scovato un catalogo e da allora aveva cominciato a richiedeva tutto per posta, le sue rare capatine in città si erano avvicinate allo zero.
Cominciò con il ritrarre se stesso, e col tempo prese a modello i suoi, il cane, il gregge, una ragazza che veniva a lavare i panni al ruscello che scorreva dietro casa, e che non mancava mai di salutarlo quando lo vedeva con tela e pennelli. Lavorava alacremente pensando che un giorno tutti lo avrebbero acclamato. Sapeva che era solo un sogno, ma era magnifico svegliarsi mentre il sogno non veniva spazzato via dalla dura realtà.
Aveva una rendita abbastanza buona per vivere, il gregge era un altro introito e la sua pensione di invalidità solo una goccia nel mare che si andava ad aggiungere a tutto il resto.
L’unica cosa che gli mancava era la compagnia di un altro essere umano, così dipingeva personaggi che avrebbe voluto alla sua tavola, ritraeva persone in atteggiamenti così reali che sarebbe parso strano sapere che erano mesi che non avvicinava un altro essere umano.
Il mondo era tutto lì fuori, difficile da raggiungere, mentre lui era chiuso nel suo piccolo cantuccio.
Era una notte di pioggia, livida e senza luna, aveva faticato a chiudere occhio per essere risvegliato dal suo cane, aveva teso bene l’orecchio e sentito dei rumori provenienti da fuori, dal portico sotto casa.
Aveva avuto paura di accendere la luce, ma non c’era bisogno d’altro per cogliere lo sguardo di un uomo che stava cercando di entrare in casa forzando la porta, la luna faceva capolino da dietro le nuvole, quel tanto da poter fotografare nella memoria il volto di quell’uomo.
Ssss zitto! – Intimò al cane. Lo sguardo di quell’uomo gli procurava angoscia, era sicuro di non poter far fronte a quell’individuo, né ad altri come lui. Stava tentando di cacciarsi sotto il letto, in fondo, contro la parete, con il cuore che gli batteva in modo forsennato, quando due mani nodose, forti da potergli spezzare la schiena lo tirarono come un pesce preso da un arpione.
Si stava divincolando sulla schiena, sapendo d' essere ridicolo, ma non riuscendo a trattenersi. – Guarda, cos’è che abbiamo qui? – Disse l’intruso rivolto al suo compare.
Quando scoprì che i malviventi erano due, il suo cuore si oscurò di brutti presagi, la sua mente vacillò sull’orlo di un urlo disumano.
Da quale diavolo di pianeta vieni? – Chiese ridendo l’intruso, assestandogli un calcio alla testa che lo tramortì, gettandolo nell’incoscienza. Riuscì a vedere la stanza messa a soqquadro prima di perdere i sensi e ringraziò il cielo per questo, non senza pensare ai suoi quadri in soffitta e a quelli da finire nello studio.
Quando tornò in sé, quasi un’ora dopo, solo il silenzio regnava nella casa. Il suo povero cane, compagno di tante avventure, gli era rimasto accanto, subendo la sua dose di botte.
Ma siamo vivi! – Disse quasi per consolarsi. – Presenti! E la prossima volta saremo preparati al peggio, te lo prometto.
Baciò il suo amico a quattro zampe e si mise in piedi, per un momento la stanza sembrò vacillare sul suo asse e lo stomaco cercò di catapultarsi fuori. Corse in bagno, appena in tempo, prima di rigettare la cena sulle scarpe.
Perse i sensi ancora una volta, prima di riuscire finalmente a salire di sopra.
Doveva sapere fin dove si erano spinti gli energumeni, con lui non erano stati teneri anche se ripensandoci bene avrebbero potuto ucciderlo, non ci voleva niente con un uomo con il corpo di un bambino.
Non ci riusciranno più, te lo prometto – disse, mettendo piede in soffitta – non ci riusciranno perché la prossima volta sarò preparato. Mi sbagliavo, la compagnia degli uomini non mi serve. Di uomini del genere posso farne a meno. – Anche se sapeva in cuor suo che c’erano le eccezioni. Suo padre, la madre e la nonna, il vicino morto di recente, cadendo nel pozzo dietro casa erano stati indulgenti con la sua menomazione. Ma ormai, nel raggio di miglia non c’era anima viva che lo potesse aiutare.
Dopo aver acceso la luce strizzò gli occhi tumefatti, poi li riaprì con grande sforzo, e constatò che in soffitta nessuno ci aveva messo piede. Ringraziò il cielo per questo.
Si predispose a scendere.
Fido gli stava dietro uggiolando di paura. Lo spinone rossiccio, quasi lo sovrastava con la sua mole ma, era un grande corpo buono.
Si sostenne al corrimano come un uomo preda dei marosi, il mondo andava e veniva in ondate strane, pervase da sconcertanti colori, si diresse in bagno dove si guardò allo specchio. – Hanno fatto un buon lavoro alla mia faccia, l’hanno resa più interessante – disse rivolto a Fido – queste cicatrici faranno girare le persone ancora più velocemente, ma lascia che mi rimetta in sesto e comincerò a costruire la trappola. Un trabocchetto abbastanza grande per gonzi.
Accarezzò il cane e si predispose nell' attesa degli eventi. Se è vero che ogni giorno nasce uno stupido, era sicuro che quei due, che oltre a stupidi erano pure cattivi, si facessero rivedere. Quasi ci sperava, tale sentimento era alimentato da una febbre interna contro il genere umano che lo stava consumando.
Pensiamo a rimetterci in sesto – disse rivolto al cane, ma parlando più a se stesso, quasi per convincersi della decisione che stava prendendo.
La prossima volta ti uccideranno – gli suggerì una vocetta interna che scacciò subito – ti toglieranno di mezzo seppellendoti nell’orto – ma quel fragore interno non voleva saperne di tacere. Mise la testa sotto il rubinetto dell’acqua fredda e tutti i pensieri scomparvero, anche quelli strani e provenienti quasi da un’altra dimensione.
Era da pazzi sentire delle voci o parlare da soli, l’acqua fredda fece sparire anche quell’ultimo inquietante pensiero e la sua coda piena di cattivi presentimenti.
Era ancora sullo sgabello, posto sotto il lavandino, in modo da poter salire per lavarsi, quando il grosso spinone cominciò a tirarlo per i calzoni, tese bene le orecchie. Un rumore proveniente dalla cucina stava diventando quasi assordante.
Stai buono – disse al cane – non allarmiamoci.
In mano teneva il medaglione, con la strana scritta, e da dove si trovava poteva scorgere il libro dalla copertina rossa, con lo stesso cerchio del medaglione, li aveva scovati in soffitta poco prima.
Legioni – c’era scritto a grandi lettere grondanti inchiostro rosso, che sembrava sangue.
Non sapeva chi li avesse lasciati in quel luogo buio, ma non gl' importava, cosa volessero dire quelle parole, lo avrebbe scoperto a suo tempo, ci avrebbe messo tutte le sue forze per venirne a capo. Tempo ne aveva da vendere.
Il suo solo pensiero era: Trappola. Solo con un inganno, un tranello ben architettato, avrebbe potuto fermare quegli insani di mente che avevano prelevato ogni cosa dal frigo e che avevano alleggerito le sue tasche di ottocento mila lire.
Non un granché, con quel denaro non avrebbero cambiato la loro condizione di emarginati, e con il cibo che c’era in dispensa, (che si strozzassero!) non avrebbero concluso la settimana.
Ma aveva un’unica certezza, in fondo alla mente.
Sarebbero tornati, non appena si fossero disfatti del malloppo.
Adesso doveva scoprire qual’ era la causa di quel trambusto in cucina.
Si avviò, spaventato ma deciso, guardò da uno spiraglio della porta, con circospezione….. e…… cominciò a scompisciarsi dalle risate.
Quel suono era nuovo alle sue orecchie.
Rideva raramente, da quando due anni prima era rimasto solo, ma adesso la situazione era troppo spassosa per non lasciarsi trascinare dall’onda di un’ilarità che avrebbe potuto ucciderlo. Gli faceva male la pancia, al punto da vedere intere costellazioni intorno alla testa del suo amico.
Il cane, spaventato dalla novità, cominciò a lapparlo in viso.
Quando fu sicuro che l’accesso di risa fosse scomparso del tutto, cercò di alzarsi in piedi, sostenendosi a Fido.
Ben saldo sulle gambe fece il suo trionfale ingresso in cucina.
Il grosso gatto nero del suo vicino di casa, scomparso misteriosamente dopo la morte del padrone, stava leccando il latte da una bottiglia finita in briciole sul pavimento. Il forte frastuono era stato provocato da una pila di pentole poste sul tavolo.
Entrò in cucina con ancora un mezzo sorriso sulle labbra, cercò di accarezzare il nero animale quando quello senza motivo lo graffiò.
Si guardò la mano sanguinante e si disse che era da stupidi ricaderci, dal prossimo bisognava sempre aspettarsi il peggio.
Tenne stretto il medaglione nella mano, facendosi male alle nocche, finchè vide il gatto accasciarsi su un fianco e smettere di respirare. Chiuse gli occhi su questa nuova consapevolezza.
Ma tre mesi dopo, tutto prese forma, e quello che in un primo momento gli era sembrato strano, adesso era fin troppo chiaro.
Era in casa per la fastidiosa febbre che lo aveva attaccato, due giorni in cui non aveva fatto che tossire dentro il fazzoletto, due interminabili notti in cui aveva provato un’atroce sensazione di soffocamento.
Non chiamò il medico, si trascinò da una stanza all’altra febbricitante e allarmato finchè la febbre calò.
Il giovedì di quella stessa settimana si era un po’ ripreso, era uscito in giardino a prendere un po’ d’aria e da lontano aveva visto quei due, i suoi sentimenti erano stati di soddisfazione.
Capite? Li stava aspettando.
Non aveva mai abbandonato l’idea di rivederli.
Entrò in casa lentamente, chiudendosi la porta alle spalle.
Aprì l’ultimo cassetto del grande comò, quello più accessibile alla sua portata, in cui aveva conservato degli strumenti che forse si sarebbero rivelati fondamentali per quello che si accingeva a fare.
Hai visto? – Chiese uno dei due compari all’altro – Hai visto bene quello sgorbio?
Le loro voci giungevano alle sue orecchie senza riguardo e la sua rabbia diventava fuoco nelle vene.
Crede che chiudendo la porta possa sfuggirci – e giù a sganasciarsi dalle risate, menandosi pacche ad ogni passo.
Si avvicinò al cane in punta di piedi, quel simpatico bestione accucciato in soggiorno, sul tappeto che non mancava mai di sistemargli sotto. Il cane lo guardò, il muso in alto, gli occhi dolci quasi umani, fece per sollevarsi ma lui lo ricacciò giù.
Stai fermo e se si mette male davvero, scappa, vai verso il bosco – gli disse, non prendendo in considerazione il fatto di scappare a sua volta, come avrebbe fatto solo qualche tempo prima.
Era lì in attesa, lo era da mesi.
Sentì dei rumori alla porta, come chi spinge per entrare. E poi scricchiolii in anticamera. Poteva vedere le loro ombre in corridoio da dove si era appostato, li osservava mentre il ghigno gli si allargava sulla faccia, un viso da grande su un corpo da bambino,
Si chinò nuovamente sul cane. – Scappa! – Gli bisbigliò all’orecchio. – Scappa…..
Lo disse con gli occhi fiammeggianti di rabbia, perché adesso vedeva il coltello nelle mani del primo, una lama mortale che luccicava.
Fido si alzò con indolenza, attraversò il corridoio caracollando ma, quando vide gli sconosciuti e uno dei due gli affondò la scarpa nel posteriore, fuggì, andando a sbattere contro la porta, solo un attimo ed era già fuori, ululando al pomeriggio grigio di nuvole.
Dove ti sei nascosto, sgorbio! – Gli urlarono. – Esci che ci divertiamo come l’altra volta!
Ma solo silenzio dalle altre camere e penombra rotta a tratti dalla luce che filtrava attraverso i pesanti tendaggi, erano così impolverati che spesso lo facevano starnutire, così si tenne alla larga perché non voleva tradire la sua posizione nella stanza. Si rannicchiò tra la panca di ciliegio, dove sua madre teneva il corredo e la sedia a dondolo che usava per cullarlo quand’era piccolo, e si lasciò trascinare sulle ali dei ricordi.
Ripensò a pane abbrustolito ai lati, sulla brace rovente, a profumo di pane in lievitazione prima di essere messo in forno, di vino versato per errore, ad agnello cotto nel latte, alla lana di pecora appena tosata e le lacrime cominciarono a scorrere. Ma sarebbero state le ultime, le sole a rivelare la sua solitudine. Adesso quegli intrusi volevano ciò che era suo, e si sarebbero appropriati di ogni cosa con la forza, ne era cosciente anche se stavolta avrebbe resistito. C’era solo da stabilire in che modo.
Si fecero avanti, e nel loro viso non c’era traccia di pietà, ma solo terribile determinazione a sopraffare qualcuno che era in netto svantaggio.
Erano al centro della stanza, quando quello più corpulento parlò. – E’ opera tua? – Disse tirando calci all’unica tela che non era stata nascosta in soffitta. – Un altro sgorbio! – E in un attimo la fece a pezzi. - Avresti dovuto seguire quel mucchio di pulci fuori da questa casa, ma adesso dovrai ……
Il malvivente era rimasto in silenzio per un momento, guardandosi alle spalle, forse aveva sentito il fruscio. Oppure…..
Si sentì scrutare da quel bestione senza pietà, riusciva a leggere in quegli occhi torbidi tutto il disprezzo per la sua condizione di nano, la nausea che riusciva a provocare e sentì che la rabbia la stava avendo da padrone, ma…
… Non doveva fare lo stupido, solo muoversi nel modo giusto se voleva raccontare tutta la storia. C’era da decidere se la volesse veramente raccontare o se preferiva che lo finissero per non dover più sopportare quello sguardo di disgusto. Era quasi attratto da questa seconda ipotesi, lasciare fare a quel bastardo e finire di soffrire, di sentire lo sguardo degli altri sempre addosso, ascoltare le loro battutine di spirito senza poterci fare niente, rimanere sempre solo. Solo e indifeso.
Quando la rete calò dal soffitto, l’energumeno stava ancora parlando, la sorpresa aveva tranciato il suo inutile discorso a metà, e fatto cadere il coltello sul pavimento con un clangore.
Sembravano due pesci presi nella rete, mentre si divincolavano urlando. – Toglici fuori da qui o te la faremo pagare, toglici di dosso questa rete maledetta. Sgorbio!….. Vieni qui….- Ma si sentiva che erano a corto di fiato.
Era piacevole sentire nelle loro voci il panico che si divincolava per prendere forma, era gradevole vederli in difficoltà e sapere di essere il solo in grado di mettere fine a quella condizione.
Si avvicinò con diffidenza. – Ora prendi il coltello….. – Stava dicendo il più magro. – ….E liberaci!
Non ci penso nemmeno! – Urlò scalciando il coltello sul pavimento e facendolo finire verso i tendaggi. – Avrete quello che meritate, ma solo fra un momento.
Era corso verso la cucina ritornando con una tanica che dall’odore pungente poteva contenere solo benzina, si trascinava la latta e nell’altra mano aveva una scatola di fiammiferi.
Fermati gnomo! – Urlarono insieme i due intrusi, non sapendo che le ingiurie sarebbero servite solo ad accelerare quello che aveva in mente.
Erano stretti nella rete, sollevata a un palmo dal terreno, appesa al grosso gancio che c’era sul soffitto. Un gancio che era servito a sollevare i sacchi pieni di grano quando la casa era ancora un granaio e suo padre era vivo. La casa era stata ristrutturata, ma il gancio era rimasto per ricordargli i grossi sacrifici fatti e che qualunque essere umano ha bisogno d’aiuto e d’astuzia.
Aveva messo in funzione la seconda, perché un uomo di nemmeno quaranta chili Si divincolavano imprecando, non sapendo che il loro sgorbio non aveva alcuna intenzione di liberarli. Avevano fatto nascere in lui l’odio e adesso divampava come fulmine nelle stoppie. Dubitava di poterlo domare anche volendo.
Facci scendere, nano maledetto! Ci verranno a cercare, non puoi tenerci legati per sempre.
- Ne siete sicuri?
La domanda risuonò nella stanza come un cubetto di ghiaccio lasciato cadere in un bicchiere, si fermarono d’incanto, rendendosi conto che erano nelle sue mani.
Liberaci, ti daremo tutto quello che abbiamo – dissero alla fine, barattando la loro vita con un po’ di pace.
- Mi sembra poca cosa, quello che avete da offrirmi…
Ascolta bene, ti proteggeremo…
Da chi? – Volle sapere, e poi – Da tipi come voi, scommetto! – Lo disse ridendo e quel suono ruppe il silenzio.
Aveva ancora in mano la tanica e dal taschino della camicia spuntavano i fiammiferi con la loro capocchia rossa, apparentemente innocui in quel momento.
Bagnò i loro piedi con il liquido gelato. – No! La benzina no! Ti sei ammattito?
Lo era davvero a ben pensarci, ma aveva ancora un briciolo di buon senso da ascoltarli. – Le fiamme richiameranno degli intrusi e pagherai, nano maledetto ti rinchiuderanno e butteranno via la chiave. Ma in carcere troverai dei personaggi che cercheranno carne fresca, quelli che ti faranno ballare al loro ritmo, che detteranno le loro leggi nonostante i secondini.
Stavolta a dettare legge ci sono io, il solo a impedire di farmi chiamare gnomo ancora una volta. -
Così dicendo gettò il fiammifero acceso nella loro direzione.
Un urlo disumano giunse fino al bosco, dove Fido potè sentire tutto il suo carico di terrore, si accucciò per terra portandosi le zampe anteriori ai lati della testa come a impedirsi di ascoltare.
L’urlo non fu udito da nessun altro. Le fiamme infatti avevano avvolto solo i corpi dei malviventi e come per magia si erano spente subito dopo.
C’è un pacco per lei! – Disse il postino una settimana dopo, quando andò a recapitargli la merce.
Firmò con le mani calzate nei guanti e subito dopo alzò gli occhi su quel ragazzone che conosceva bene. – Vuoi un bel bicchiere di te freddo? – Chiese sorridendogli.
Mi andrebbe, ma sono in ritardo – rifiutò gentilmente l’altro – ti prometto che la prossima volta accetterò l’invito.
Quando il ragazzo svoltò l’angolo, Lo Gnomo si predispose all’attesa, forse sarebbe stata lunga. Ma prima o poi tornavano sempre.
Ha ben poche speranze, se vuol fermare gli energumeni che vogliono ciò che tiene nei suoi cassetti segreti. Non sarebbe bastata la forza di due giganti per quei due, ma la trappola era quanto di meglio ci fosse.